IL COLORE RAZIONALE. LE RISORSE METODOLOGICHE E PROGETTUALI DI NCS – NATURAL COLOR SYSTEM®©. A cura di Eugenio Guglielmi e Gianluca Sgalippa – Maggioli Editore

Il colore è un linguaggio universale, una esperienza visiva immaginifica d’intensità variabile dalle molteplici applicazioni didattiche, progettuali  e artistiche. Come dimostra la conoscenza del Sistema Cromatico NCS®©, aperto alle possibili connessioni tra arte, design e razionalità progettuale inclusa emotività e poetica, immaginario soggettivo e funzionalità sociale, in cui luce, spazio e colore sono al servizio della razionalità inventiva.

Per capire meglio come e perché colore e razionalità sono complementari, è utile leggere il libro Il Colore  Razionale. Le risorse metodologiche e progettuali di NCS –NATURAL COLOR SYSTEM®© a cura di Eugenio Guglielmi e Gianluca Sgalippa (edito da Maggioli Editore), comprensivo di quattordici illuminanti saggi di  NCS Colour Centre Italia System®©, Gianpiero Alfarano, Anna Anzani ed Emilio Lonardo, Cristina Boeri, Aldo Bottoli, Paolo Buonaiuto, Maria Cristiana Fioretti, Ignazio Gadaleta, Eugenio Guglielmi, Marcello Melis, Clemente Micciché, Orietta Pelizzari, Cristina Polli e Gianluca Sgalippa che mettono in discussione il valore fondamentale della Cromatologia classica, all’insegna di una lettura trasversale, soprattutto connessa alla contemporaneità “fluida”, in cui il colore diventa materia aperta alla sperimentazione digitale associata all’esplorazione di nuovi codici formali e cromatici orientati verso sorprendenti orizzonti percettivi.

Quando e se il colore è razionale lo scoprirete leggendo questa pubblicazione, capace di coniugare una materia metamorfica com’è il colore, con la pars costruens delle sue molteplici potenzialità e applicazioni alle tinte nell’ambito della cultura del progetto a 360°gradi, seguendo un ragionamento analitico, scientifico e poetico insieme, attraverso le testimonianze di professionisti che lo utilizzano come materia di conoscenza e di ricerca scientifica ed estetica.

La ragione è l’emozione del colore? Chissà, di certo è una esperienza percettiva armonica, seducente di per sé, come dimostra NCS –Natural Colour System®© in questa pubblicazione, perché il tema del colore è nel e per il progetto, all’insegna della connessione di discipline diverse, implicita nella cultura digitale.

Nel Novecento il colore è stato sistematizzato entro griglie razionali, secondo approcci scientifici diversi in relazione alle arti visive, all’arredamento, alla decorazione e più in generale a una fenomenologia complessa del colore, soggetto a costanti ridefinizioni di lettura oggettiva a seconda della luce, che ci permette di  vederlo e di distinguerne la conformazione di una forma o un oggetto a cui è stato applicato. Sappiamo che la percezione dell’esperienza del colore è soggettiva, anche se elementi simbolici e culturali possono condizionare la lettura delle specifiche peculiarità di un dato colore scelto per qualcosa e qualcuno e in un dato contesto, e qui gli esempi possono essere infiniti.

Nel secolo scorso si delineano diverse teorie del colore, all’insegna di un percorso interdisciplinare (con il contributo di oltre sessanta esperti fra architetti, psicologi, fisiologi, teorici del colore e designer) su  commissione della Royal Swedish Academy of Engineering Sciences, e quegli approcci approdano all’elaborazione di NCS-Natural Color System®© negli anni ’60 del secolo scorso che attualmente comprende 2.050 tonalità standard, originato dalla percezione umana dei colori, basato sulle diverse  tonalità attraverso una rappresentazione grafica e una notazione alfanumerica, il cui carattere consiste nel mappare il colore come viene percepito, trasformato in forma oggettiva e unificabile.

L’accostamento di diverse unità-tonalità cromatiche dipende dal gusto e armonia, dalle cosiddette nuace  o “gradiant” (dal francese  degradé  o inglese gradiant ) più o meno caratterizzanti. Grazie a questo libro, si  aprono nuovi ambiti di ricerca sul rapporto tra luce e colore (naturale e artificiale), in cui geometria e sentimento collaborano nella gestione dello spazio cromatico. E in questo libro, il colore sul piano scientifico e simbolico si fa parola, narrazione, racconto, diventa zona intermedia tra vedere, sentire  e sapere altro, come si evince dalla lettura dei colti saggi in cui il Sistema Cromatico NCS®© è il presupposto tematico, key words per una indagine del colore come texture dell’inclusività, come condizione di relazione tra noi e gli oggetti, ambienti, architettura e arti plastiche che produciamo. Saremo gli oggetti che immaginiamo come estensione nel nostro esserci nel mondo, colorati anche di bianco e di nero, funzionali se progettati all’insegna della qualità e sostenibilità ambientale, sempre orientati al comfort visivo e all’armonia tra uomo e natura nella realtà tecnologica, materiale e immateriale in cui viviamo, e molto dipenderà dall’uso che faremo del colore e anche dell’Intelligenza Artificiale.

TRE SCULTURE AL NEON DI VALERIO ROCCO ORLANDO CHE ILLUMINANO PROCESSI COLLABORATIVI E DI RIGENERAZIONE SOCIALE PER BGBS2023

Valerio Rocco Orlando, Chi diventare? (Vite operose), 2023; scultura di luce al neon bianco, 60 x 350 cm; courtesy l’artista e GAMEC, dono Berlucchi Franciacorta; photo © atelierXYZ

Nel cortile interno della Galleria di Arte Moderna e Contemporanea – GAMeC – di Bergamo, spicca la seconda opera al neon di  Vite operese, progetto di Valerio Rocco Orlando, a cura di Caroline Corbetta e commissionato dall’imprenditore culturale Guido Berlucchi, sul tema del lavoro nell’ambito dell’arte pubblica della Franciacorta e di Bergamo e Brescia Capitale Italiana della Cultura 2023.

Questo progetto di arte partecipata e diffusa incentrata sul tema del lavoro punta sull’arte inclusiva per ricucire il rapporto tra individuo e territorio che diventa strumento di integrazione sociale. È nato in Franciacorta ed è stato sviluppato nel 2023, per Bergamo e Brescia Capitale Italiana della Cultura, in collaborazione con il GAMeC di Bergamo e con Brescia Musei.

Vite operose comprende tre opere diverse nate in collaborazione con le comunità della Franciacorta e le città di Bergamo e di Brescia. Chi diventare?, è la seconda scultura luminosa della GAMeC, entrata a far parte delle collezioni del Museo, grazie alla donazione di Guido Berlucchi. Si tratta di una scritta con il neon bianco dalla grafica quasi infantile, una metafora della produzione artigianale, frutto del confronto tra Valerio Rocco Orlando e un gruppo di suoi studenti del Politecnico delle Arti di Bergamo.

Valerio Rocco Orlando, Chi diventare? (Vite operose), 2023; scultura di luce al neon bianco, 60 x 350 cm; courtesy l’artista e GAMEC, dono Berlucchi Franciacorta; photo © atelierXYZ

La prima scultura al neon si trova al Castello Berlucchi di Borgonato (Franciacorta, Brescia) con il messaggio Il lavoro ha diversi volti, tassello iniziale di una trilogia che si chiuderà a Brescia il 26 settembre al Museo di Santa Giulia. Oltre al valore concettuale ed estetico della scultura in sé, mette in luce un processo laboratoriale sotteso che apre riflessioni sulla relazione tra il sistema educativo e il mondo del lavoro, alla base della formazione delle generazioni di questo territorio. La scultura al neon, realizzata a mano e in edizione unica, pone l’accento sulla necessità di coinvolgere i giovani che si affacciano sul mondo del lavoro, è un messaggio per tutti i cittadini.

Il progetto espositivo apre riflessioni anche riguardo al ruolo della Light Art pubblica italiana, in questo caso legata alla Sostenibilità e alla Cura del Territorio, e per questo efficace e che può ripensare nuove geografie urbane e mappature umane capaci di produrre innovazione. Le sculture al neon, fatte con un materiale sostenibile, sono illuminanti su chi, come, dove e perché l’arte innesca processi collaborativi.

Come giustamente ha evidenziato la curatrice, il progetto Vite operose rappresenta un modello virtuoso di collaborazione tra pubblico e privato, indirizzato non tanto al profitto, ma alla volontà di attivare passioni di un fare comunitario, indicando un modus operandi collaborativo, attraverso l’arte partecipata. L’obiettivo è di trasformare desideri e sogni in un “cantiere” umanistico delle idee, di riscatto e realizzazione dell’individuo nella società, capace di generare lavoro. E questo progetto produce lavoro in diversi contesti nel rispetto di un diritto costituzionale e universale per tutti.

Laboratori di Vite operose a Bergamo con gli studenti del Politecnico delle Arti

Valerio Rocco Orlando (Milano, 1978), artista, educatore, fondatore e direttore di South of Imaginations (2021), coniuga arti visive e pedagogia applicata agli spazi urbani, con progetti partecipativi che, tra gli altri media, da anni includono sculture al neon realizzare “A sud dell’immaginazione”, tanto per citare l’artista, basati su laboratori collaborativi e condivisi con altri autori.

A Brescia, l’artista ha approfondito il tema della relazione tra lavoro e l’interculturalità, lavorando con una  comunità composta da collaboratori di diversa provenienza che cooperano con Fondazione Brescia Musei (considerato modello di sostenibilità economica che produce cultura, promozione del patrimonio artistico, ricerca e progetti inclusivi connessi al benessere sociale e crescita culturale) e con mediatori artistico-culturali della delegazione locale Fai Ponte tra culture.

La Light Art nell’ambito pubblico, dovrebbe fare luce su processi di connessione tra enti, mestieri, autori di ambiti diversi, contro l’uso soltanto decorativo, festivaliero-performante di troppe installazioni luminose di facciata, strette nella morsa del marketing urbano e spesso prive di contenuti e di una lungimirante strategia di rilancio culturale del territorio, all’insegna di un umanesimo policentrico e circoscritto al tempo stesso, per un’arte che forma e informa sulla necessità etica ed estetica di rigenerazione degli spazi urbani.

MUSEO NOVECENTO A FIRENZE: UNO SCRIGNO DI FOLGORANTE NOVITÀ

Everything might be different, installazione di Maurizio Nannucci nel Museo del Nocento di Firenze. ph. Serge Domingie

A Firenze nella metafisica Piazza Santa Maria Novella 10, all’interno dell’antico Spedale delle Leopoldine dove le giovani povere venivano istruite, c’è uno scrigno da scoprire. È il Museo del Novecento dedicato alle opere del XX secolo, realizzato dopo quasi 50 anni di proposte e progetti, riproposte tramite cicli di mostre intelligenti in relazione al territorio, ideate in collaborazione con altre istituzioni o musei fiorentini.

Particolare di “Y.Z. Kami. Light, Gaze, Presence”, Museo Novecento, Museo di Palazzo Vecchio, Museo degli Innocenti e Abbazia di San Miniato al Monte, Firenze, ph. Serge Domingie, Courtesy Museo Novecento

La collezione permanente proveniente dalla Collezione Alberto della Ragione (241 opere) rappresentative dell’arte dal 1920 al 1945, è in parte costituita da opere donate dagli artisti e collezionisti in seguito all’appello di Carlo Ludovico Ragghianti di ricostruire il patrimonio artistico e culturale fiorentino, dopo la devastante alluvione del 1966. Nella collezione civica del Novecento spiccano il corpus di opere di Ottone Rosai, il lascito Alberto Magnelli, opere di Corrado Cagli e Mirko Basaldella e di altri maestri del XX secolo. In tutto sono esposte oltre 300 opere tra dipinti, sculture, installazioni e ambienti che attraversano la storia dell’arte dal futurismo all’Arte Povera, ospitate in un edificio già opera architettonica in sé e distribuite in 15 ambienti espositivi, oltre a una sala studio, un gabinetto di disegni e stampe, una sala per conferenze e proiezioni.

Particolare di “Y.Z. Kami. Light, Gaze, Presence”, Museo Novecento, Museo di Palazzo Vecchio, Museo degli Innocenti e Abbazia di San Miniato al Monte, Firenze, ph. Serge Domingie, Courtesy Museo Novecento

Il Complesso Monumentale è stato recuperato grazie a un lungo lavoro di restauro, curato dal Servizio Belle Arti del Comune di Firenze e al contributo dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze. Il Museo Novecento nasce su progetto di Valentina Gensini, direttrice scientifica dal 2014 al 2017, eccellente narratrice delle storie dell’arte del XX secolo con l’obiettivo di  documentare le evoluzioni degli stili del Novecento. Raccoglie ed espande la sua eredità Sergio Risaliti, direttore dal 2018, che ha modificato radicalmente le sale espositive e il percorso museale “dinamico”, puntando su mostre tematiche capaci di rimettere in discussione la collezione permanente ospitata al secondo e terzo piano. Altro elemento innovativo introdotto dal direttore, è la proposta di mostre temporanee di artisti di fama internazionale dislocate in diverse sedi istituzionali fiorentine e volte a far conoscere il Museo a un pubblico più ampio. Ordinato in senso cronologico, tematico e interdisciplinare, il percorso espositivo è arricchito da postazioni multimediali, dispositivi sonori e sale video che facilitano una immersione totale nel cosiddetto “secolo breve” che ha visto Firenze al centro della scena culturale nazionale e internazionale. Lungo il percorso Dentro il Novecento format multimediali di approfondimento permettono ai visitatori di visionare documenti, fotografie d’epoca, interviste televisive, riviste e brani letterari e video documentari prodotti dalla Direzione Cultura del Comune di Firenze per il Museo.

Particolare di “Y.Z. Kami. Light, Gaze, Presence”, Museo Novecento, Museo di Palazzo Vecchio, Museo degli Innocenti e Abbazia di San Miniato al Monte, Firenze, ph. Serge Domingie, Courtesy Museo Novecento

Varcata la soglia del Museo, nel loggiato rinascimentale campeggia l’installazione permanente al neon Everything might be different di Maurizio Nannucci e, al piano terra, fulmina lo sguardo e si fissa nella memoria la mostra Y.Z. Kami. Light, Gaze, Presence (fino al 24 settembre 2023), a cura di Sergio Risaliti e Stefania Rispoli, da vedere senza ma e senza se.

Questa è la prima grande mostra fiorentina di 24 opere, esposte nel Museo del Novecento, nel Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, nel Museo degli Innocenti e nella chiesa di San Miniato al Monte, dell’artista iraniano-americano nato a Teheran nel 1956 che vive e lavora dagli anni’80 a New York. Kami ha iniziato a dipingere a cinque anni nello studio della madre ed è riconoscibile per i suoi ritratti quasi fuori fuoco, immobili e rarefatti, ai limiti della trascendenza, smaterializzati nella diafana luce bianca.

Particolare di “Y.Z. Kami. Light, Gaze, Presence”, Museo Novecento, Museo di Palazzo Vecchio, Museo degli Innocenti e Abbazia di San Miniato al Monte, Firenze, ph. Serge Domingie, Courtesy Museo Novecento

Catalizzano il nostro sguardo alcuni suoi dipinti delle serie Dome e Night Paintings che sembrano fuori dal tempo, iscritti nell’eternità. In quelli della prima serie, Kami si ispira a immagini archetipe, come il mandala, e alle forme e architetture concentriche tipiche della tradizione persiana e degli edifici sacri di tutto il mondo, mentre quelli della seconda serie evocano visioni notturne, scavando nel profondo dell’anima. Queste opere sottratte dall’oscurità materializzano apparizioni nate dalle tenebre e sono ispirate alle poesie di W. Blake. Il colore dominante è l’indaco intervallato da macchie bianche che, nel loro effetto sfuocato, sembrano aggrapparsi al presente, enigmatiche  presenze che si mostrano sulla soglia dell’Imminente sparizione e ci chiedono di essere mantenute in vita. Sono figure, persone destinati all’oblio e che rivivono nell’atto di contemplarle.

Y.Z. KAMI, Daniele, 2016-2017, oil on linen, 90 x 54 inches, (228.6 x 137.2 cm), Courtesy the artist and Gagosian

I suoi dipinti a olio su lino, volti in primo piano, sono ectoplasmatiche creature di luce immobilizzate dal silenzio. Ritratti di donne e di uomini colti in primo piano, sovente ritratti a occhi chiusi, ci appaiono sospesi nel tempo e nello spazio, così ascetici e misteriosi, rimandano a un altrove indefinibile dalla intensa luminosità rarefatta e hanno il potere di astrarci dal “rumore” della nostra cinica società globale, bulimica di tutto e di tutti, esperienze e incontri senza però approfondire niente.

Y.Z. KAMI, Night Painting II (for William Blake), 2017 – 2018, oil on linen, 102 x 108 x 1 3/4 inches (259.1 x 274.3 x 4.4 cm), Courtesy the artist and Gagosian

Kami, è pittore dell’invisibilità, un ascetico precursore del silenzio, di un’arte come forma di meditazione e contemplazione, un compagno ideale di ricerca di Roman Opalka (1931-2011), in quanto sono entrambi attratti dall’idea di espandere un’esistenza nello spazio-tempo, oltre la contingenza del quotidiano. I ritratti di Kami, realizzati sulla traccia di fotografie scattate ad amici o sconosciuti, prima devono sedimentare sua nella memoria, poi vengono alla luce a distanza di anni e sono carichi di riferimenti di storia dell’arte e storia della fotografia, intrisi di testi sacri e di filosofia, che l’artista ha studiato alla Sorbonne di Parigi.

Sono opere che si inscrivono nell’universale e ci indicano una strada di pittura meditativa per dilatare l’esistenza oltre i limiti mortali, dentro e fuori la cornice.

18. Mostra Internazionale di Architettura a cura di Lesley Lokko. Biennale narrativa, didascalica con molte suggestioni e poca architettura

Padiglione del BRASILE
Terra [Earth]
18. Mostra Internazionale di Architettura – La Biennale di Venezia, The laboratory of the Future
Photo by: Matteo de Mayda
Courtesy: La Biennale di Venezia
La 18. edizione della Biennale di Architettura a Venezia in bilico tra contenuto, forma e poetica, politica, società e cultura, è di taglio sociologico e narrativo. Novità 2023 è che propone la tipologia di un architetto practitioner, praticante che si muove in diversi ambiti tra paesaggio, ingegneria, accademia e design, progettazione e urbanistica, rappresentante di una società fluida all’insegna del transculturalismo, transgendrismo e trasformismo. I nuovi progettisti interdisciplinari condividono l’idea di una architettura che va oltre il limite costruttivo per aprirsi all’immaginazione, anche se a giudicare dai progetti esposti non si capisce come salvare il mondo e risolvere tutti i problemi del clima e dello sfruttamento del suolo a cui dovremmo, almeno, porre un argine per vivere meglio in futuro su questo Pianeta.

Padiglione del BAHRAIN
Sweating Assets
18. Mostra Internazionale di Architettura – La Biennale di Venezia, The laboratory of the Future
Photo by: Andrea Avezzù
Courtesy: La Biennale di Venezia

È una Biennale carica di intenzioni più che di architettura che nasce come piattaforma di scambio e riflessione intorno a progetti (per buona parte in corso d’opera) e di idee (di architetti giovani). Di taglio etnografico e più narrativa delle altre, sviluppa l’eredità sociologica avviata dal cileno Alejandro Aravena nel 2016 e continuata da Hashim Sarkis nel 2021. Ricordiamo che la Biennale di Venezia è stata certificata come manifestazione a neutralità carbonica, e questo è il primo passo per progettare il futuro.

Padiglione dell’AUSTRIA
Partecipazione / Beteiligung
18. Mostra Internazionale di Architettura – La Biennale di Venezia, The laboratory of the Future
Photo by: Matteo de Mayda
Courtesy: La Biennale di Venezia

La Mostra Internazionale di Architettura a cura di Lesly Lokko (una scozzese cittadina del Ghana, nata nel 1964), intitolata The Laboratory of the  Future (aperta fino al 26 novembre), comprende 89 partecipanti, ed è incentrata sull’immaginazione del futuro, sui materiali e manufatti. Ma questa non è una novità. Piuttosto è più originale la proposta di aprire le porte sulle donne e sulle minoranze africane, sempre rimaste in ombra. L’Africa si pone come manifesto di nuovi paradigmi architettonici resilienti di come abitare il futuro. E un continente che comprende diverse, etnie, lingue, culture e religioni e differenti modelli architettonici, fragile, vessato da guerre civili, dittature militari, povertà, carestie, siccità, pandemie e disastri ambientali, che nel tempo sopravvive a crisi permanenti, basandosi su risorse e materiali locali. Tutto questo viene raccontato nel Padiglione centrale, ai Giardini, dove espongono 16 studi della sezione Force Majeure, il meglio della produzione architettonica africana e diasporica, e 32 esordienti. Delude di più la sezione scenografica Dangerous Liasons all’Arsenale, in cui prevale un aspetto “creolo”. Secondo lo spirito umanista di Lokko, che si è proposta di “esplorare e non spiegare il futuro”, vengono forniti indizi ma non soluzioni e questa mancanza di regia unitaria si percepisce passeggiando tra una gincana di progetti inconsistenti stipati tra Arsenale, Giardini e Forte Marghera. A tratti la Biennale ci sembra sciatta e come se non bastasse, anche l’allestimento lascia molto a desiderare.

Kéré Architecture
Counteract
18. Mostra Internazionale di Architettura – La Biennale di Venezia, The laboratory of the Future
Photo by: Matteo de Mayda
Courtesy: La Biennale di Venezia

Lokko ha fondato la Graduate School of Architecture dell’Università di Johannesburg (Sudafrica) e ha diretto Folio: Journal of Contemporary African Architecture, è autrice di racconti familiari di successo ambientati tra Africa, Stati Uniti ed Europa. In sintesi anche questa Biennale rispecchia un po’ la sua vita nomade, con umanissimi dubbi e incertezze che nei sui romanzi possono trasformarsi in opportunità per il futuro, ma in architettura può bastare?

Padiglione della GRAN BRETAGNA
Dancing Before the Moon
18. Mostra Internazionale di Architettura – La Biennale di Venezia, The laboratory of the Future
Photo by: Marco Zorzanello
Courtesy: La Biennale di Venezia

Due sono le parole chiavi della sua Biennale, decarbonizzazione e decolonizzazione, orientata soprattutto sulle risorse umane e ambientali che devono essere equamente distribuite, perché secondo Lokko non c’è giustizia sociale senza quella ambientale. E siamo tutti d’accordo, ma restiamo delusi quando, in questo “laboratorio” sulle possibilità, fatichiamo a trovare soluzioni concrete. Sappiamo che la precarietà può essere una risorsa di rigenerazione, molto umana e poco tecnologica, ma, in una Biennale di Architettura, bisogna anche proporre meno suggestioni e più modelli di come abitare in questo mondo. Di buono c’è che si puntano i riflettori sulla diaspora dell’Africa, su una cultura fluida, capace di intrecciare persone di origine  africana che vivono e lavorano in occidente, senza perdere i contatti con le proprie comunità e la propria cultura di appartenenza. Per esempio è interessante l’installazione di Flores Prats (lo spaccato imponente di uno studio con materiali di lavoro, disegni e modelli incompiuti di case brulicanti di vita), e quella di Adjaye Associates, che ha fatto ricorso a una serie di elaborati, progettati cinematograficamente, per illustrare i suoi interventi in Benin. Video e maxi schermi e documentari su questa o quella realtà sono una caratteristica della maggior parte dei padiglioni di questa biennale e, francamente, tutte queste storie alla fine non premettono di arrivare al come abiteremo il futuro.

Adjaye Associates
Kwaeε
18. Mostra Internazionale di Architettura – La Biennale di Venezia, The laboratory of the Future
18th International Architecture Exhibition – La Biennale di Venezia, The laboratory of the Future
Photo by:
Courtesy: La Biennale di Venezia

Fatto positivo è che l’età media dei partecipanti è di 43 anni e di 37 nella sezione Progetti Speciali, il più giovane ha 24 anni, e viene rispettata la parità di genere. Oltre il 70% delle opere esposte sono state realizzate da un solo architetto o da un team ristretto, più incentrate sull’immaginazione del singolo individuo che sul sogno collettivo o dell’archistar (estinto) e gli artigiani, più che gli architetti, potrebbero trasformare il nostro modo di concepire l’architettura per riconfigurare un mondo più vivibile di quello attuale. In Africa ci sono diversi modelli di architettura, anche di influenza americana o europea, ogni regione ha climi, morfologie e contesti culturali differenti che non sono assimilabili a un unico modello di architettura africana. Queste diversità locali sono una risorsa e bisogna indagare come gli architetti africani stanno proponendo un modello “universale” in occidente, come fa, per esempio, Diébédo Francis Kéré, architetto burkinabé che ha vinto lo scorso anno il premio Pritzker, sempre fedele alla sua comunità di origine. Come è noto il Niger partecipa per la prima volta alla Biennale veneziana, un segnale importante, e inoltre, torna la Santa Sede, ospitata alla Fondazione Cini. Sono ineccepibili i padiglioni ai Giardini: Brasile (Leone d’Oro), Gran Bretagna, Belgio, Germania, Serbia, Giappone, Austria e Messico, mentre all’Arsenale sono da segnalare Uzbekistan, Lettonia e il padiglione del Bahrain per un progetto davvero innovativo, On Climate Conditioning and Ecology, incentrato sulle potenzialità ecologiche e rigenerative dell’aria condizionata per risolvere problemi di siccità in territori aridi.

Padiglione del GIAPPONE
Architecture, a place to be loved — when architecture is seen as a living creature
18. Mostra Internazionale di Architettura – La Biennale di Venezia, The laboratory of the Future
Photo by: Matteo de Mayda
Courtesy: La Biennale di Venezia

Come nelle precedenti edizioni, questa biennale continua a muovere critiche pro o contro, con la speranza di trovare nella 19a edizione meno video racconti di curatori, muratori, e di chi sa chi e fa cosa in un certo luogo, ma più bellezza, una promessa di ottimismo, con progetti pronti, disposti e in grado di superare l’Antropocene a favore di fasce di umanità “fantasma”, sempre più invisibili all’occidente che sembra aver perduto il senso di responsabilità dell’architettura e cura dell’ambiente.

 

Paesaggi Cosmici di Leonilde Carrabba, Galleria Sinopia, Roma

La mostra Lentē, Paesaggi Cosmici alla Galleria Sinopsia di Roma. Photo Manuela Giusto

Leonilde Carrabba, una ragazza astrale del 1938, nata a Monza e residente a Milano, pittrice e viaggiatrice  fisica e mentale di territori inesplorati, cresciuta all’ombra dello Spazialismo di Lucio Fontana coltivando il superamento della pittura informale. Tra le compagne della sua generazione di crescita professionale, ricordiamo Carla Accardi, Dadamaino, Grazia Varisco, Amalia Del Ponte e Nanda Vigo. Carabba, affascinata dall’alchimia, si misura con il mistero dell’universo, appassionata di esoterismo, è studiosa del vocabolario simbolico, junghiana convinta, presa da tensioni mistiche e cosmiche, già dal 1966 trova nella sperimentazione sulla rifrazione della luce, mediate l’impiego di microsfere di vetro, una superficie a intensità luminosa variabile secondo l’angolo di visuale del fruitore senza mezzi meccanici.

LeoNilde Carabba davanti all’opera dedicata a Venere. Photo Avassena

Questo è l’inizio di del suo originale percorso spirituale verso la luce quale sorgente e soglia di attraversamento dal finito all’infinito, oltre lo spazio e il tempo sfiorando i codici dell’anima con forme  simboliche dai colori fluorescenti, fosforescenti, le luci wood e a volte anche laser, in cui il sacro si fa visione e l’assoluto diventa icona di contemplazione. Dal 2015 Carrabba fa parte del gruppo Internazionale Black Light Paintings fondato da Fabio Agrifoglio, presidente della Fondazione Agrifoglio con Gisella Gellini.

Per Carabba la pittura è da sempre una forma di meditazione. Le sue opere sono esposte a Roma nella galleria Sinopia, dove presenta Paesaggi Cosmici nell’ambito del ciclo Lentē (significa lentamente), dedicato al dialogo fra natura, arte e design, con 14 opere che indagano l’orizzonte di riflessione soggettivo e universale, dall’energia elettrizzante, messe a confronto con lavori del designer Celo1.

Immagine della mostra Lentē, Paesaggi Cosmici alla Galleria Sinopsia di Roma. Photo Manuela Giusto

La  mostra, a cura di Cloe Berni, architetta fondatrice di Sinopia Landscape insieme a Livia Ducoli, con questo secondo appuntamento espositivo, che segue Paesaggi Domestici, si pone l’obiettivo di investigare dimensioni interiori e di catturare l’inafferrabile bellezza dell’universo, attraverso la suggestione della luce, del suono e di strutture specchianti (utilizzati dai designer Celo1).

Con le sue forme circolari, l’artista visualizza “astri” immaginari e luminescenti e invita il fruitore a intraprendere viaggi trascendentali, lo trascina oltre il limite della superficie pittorica dentro ambienti  mistici dove Terra e Cielo sono convergenti, ed è complice il buio dove la luce (simbolo di vita) si origina, in una dimensione soglia sospesa tra finito e infinito.

LeoNilde Carabba, 2021, Davanti a Giove e La Città del Sole. Photo Avassena

Così noi spettatori esploriamo profondità altrimenti inconoscibili, osservando i suoi vibranti e ipnotici cerchi magici, come la Terra, il Sole, la Luna e gli altri pianeti, inusuali mandala che sottendono tensioni spirituali verso e oltre l’infinito.

Incantano i suoi sigilli esoterici, instagrammabili, apparentemente semplici sul piano formale, invece complessi dal punto di vista esecutivo, poiché sottendono raffinate pratiche alchemiche e tecniche non scontate. Carabba nella sua pittura astrale include una poetica cosmica con frammenti pigmentati, quali “reperti’” del mistero dell’universo, illuminati da sfere catarifrangenti impalpabili, ammantati dal buio.

LeoNilde Carabba, Inno alla materia oscura, Omaggio a Vera Rubin. Photo Avassena

In questa mostra Carabba si concentra sulla profondità dello spazio siderale che può entrare nel nostro quotidiano attraverso opere simboliche e vibranti volte a indagare l’energia cosmica, forme non a caso circolari come pratica di meditazione spirituale per il benessere dell’anima, in cui arte e design attivano emozioni da provare di fronte alle sue opere di tensione sacrale.

INTERVISTA A DORA TASS: L’ANTROPOLOGA DELL’OLOGRAMMA

Holophone, 90x30cm. Courtesy Dora Tass

Dora Tass (1969), antropologa e artista romana che vive a Santa Fe (New Mexico), dal 2007 lavora con la luce, seguendo le parole dette da sua madre “non perdere la tua luce”, prima del suo passaggio nell’Ade, ed è interessata al fotone, alla frequenza, all’onda e all’ologramma, utilizzato come metalinguaggio, assemblando gli oggetti della comunicazione analogica. Nel 2012 partecipa alla mostra al MIT MUSEUM di  Boston, dove ha incontrato August Muth, artista minimalista statunitense erede di James Turrell, e da quel momento ha approfondito le potenzialità espressive dell’ologramma. I suoi lavori vertono sulla percezione dello spazio e l’umanizzazione della tecnologia. Alcune sue opere sono attualmente nelle collezioni del MART di Rovereto e del MIT MUSEUM, Massachusetts USA. In questa intervista si racconta.

IPERLIBRO, 3.60mtx4.50mt, è eterna, acciao a specchio e ferro. Courtesy Dora Tass

Dall’antropologia all’arte, cosa è successo? Ci racconti quando e perché hai deciso di dedicarti all’arte ?

Antropologia e arte non sono mai state separate. Mio padre era un disegnatore e progettista, l’arte era di casa e l’antropologia legata all’imprinting del viaggio iniziato da piccolissima; da Genova a Buenos Aires una traversata lunga 18 giorni sulla nave Cristoforo Colombo “vettore di migrabondi destini” da Gadda a Fontana. Dopo la Laurea in Antropologia Culturale ho coltivato l’arte da autodidatta, la pittura, la scultura, soprattutto l’olografia che mi ha portata fino in New Mexico.

Reflection Hologram in glass, 68×56 cm, 67x58cm. Courtesy Dora Tass

Quando hai deciso di introdurre la luce nella tua ricerca artistica  e quali sono stati  i primi materiali che hai utilizzato nelle tue opere ?

Ho iniziato direttamente con l’olografia che è un’arte della luce nel 2007 intuitivamente, un salto nell’ignoto dopo la mia opera Iperlibro. Incuriosita dall’ologramma ho iniziato con la macchina da scrivere Olivetti Valentine di mia madre che era mancata da poco, ho composto un assemblaggio ibrido della tastiera trasformata in ologramma e ricongiunta al corpo della Olivetti che avevo letteralmente tagliato a metà. Ho continuato con oggetti della comunicazione analogica assemblati con ologrammi, esposti alla Biennale di Venezia 2011 grazie a Bertolucci, “fan” dell’ologramma.

Reflection Hologram in glass, 68×56 cm. Courtesy Dora Tass

Come nasce la tua passione per l’ologramma e perché continua ad essere la cifra stilistica del tuo lavoro?

La luce è un bellissimo materiale, onda-frequenza, comunicazione, particella, si materializza nell’ologramma come materia luminosa tridimensionale, tra arte, scienza, alchimia, filosofia. Il mondo olografico mi affascina come il mondo delle idee di Platone o l’iperreale di Boudrillard.

Hai dichiarato più volte che intendi  “umanizzare  l’ologramma” , ma cosa intendi dire e come lo fai ?

Reflection Hologram in glass, 70×60 cm. Courtesy Dora Tass

L’ologramma può risultare un esercizio tecnico freddo e distante. Umanizzarlo è portarlo sulla terra con l’assemblaggio ibrido tra materia e ologramma, rivitalizzarlo con l’ironia, giocando sull’errore, “mascherando” la tecnica.

Nel 2012 hai seguito un simposio sull’ologramma al MIT, Massachusetts Institute of Technology a Boston, dove hai incontrato August Muth, tra gli eredi di Jemes Turrell. Come nasce la vostra decennale collaborazione e quali lavori avete sviluppato insieme ?

Holographic Light Artwork in glass, 70cmx60cm. Courtesy Dora Tass

Il simposio è stato fondamentale, era presente tutta l’etnia olografica di cacciatori raccoglitori di luce tra arte e scienza. Una mia opera esposta al MIT Museum è piaciuta ad August che mi ha invitato nel suo studio. Ho visitato prima altri laboratori in USA, incuriosita da questo medium, ma nessuno mi si confaceva. Ultima tappa Santa Fe: il suo studio era diverso, più arte e meno scienza, la qualità della luce eccezionale grazie all’emulsione olografica fatta da August hand made, che collaborava anche con Turrell in quel periodo. Il mio approccio umanistico così diverso dal suo gli piaceva e non interferiva con il suo lavoro. Abbiamo iniziato a collaborare alla serie delle typewriters, August mi insegnava la tecnica e mi lasciava libera di sperimentare. È stato un periodo positivo di reciproco accrescimento.

Qual è  la differenza stilistica tra le opere di August Muth e le tue ?

August principalmente si muove nella sfera della minimal art, io in quella figurativa del surrealismo-dada e pop art.

San Pietrino! Assemblage con Ologramma, 40x30cm. Courtesy Dora Tass

Nel 2006 hai prodotto la serie Iperlibro in cui hai introdotto Led e Neon, qual è il messaggio di queste opere di attitudine semiotica ?

Le  grandi sculture Iperlibro nascono nel momento in cui il libro è sostituito in gran parte dai media elettronici nella sua funzione comunicativa e viene elevato da strumento a simbolo di conoscenza, come descritto da Mirella Bentivoglio. La parola concretizzata in luce ha un impiego poetico ed evocativo, pone l’accento sul libro come simbolo e funge da congiunzione con il contesto in cui è collocato. Le pagine sono vuote, incorniciate da tubolari di metallo, possono essere attraversate camminando, metafora del nomadismo della cultura orale tra arcaico e contemporaneo. L’Iperlibro inscena narrazioni sempre diverse  includendo elementi della natura e architettura, come quello nelle rovine romane con la scritta al Neon “è eterna” o quello a cui sto lavorando “ma voi potreste eseguire un notturno su un flauto di grondaie?”, da una poesia di Majakovskij dove la frase LED è scritta su una prolunga di grondaia che entra nelle pagine come un segnalibro.

È nota la tua serie Archeologia del futuro, un titolo piuttosto ossimorico. Cosa intendi presentare con queste opere sempre contemporanee ?

San Pietrino! 40x30cm, ologramma e pietra. Courtesy Dora Tass

Archeologia del Futuro è una serie olografica di oggetti della comunicazione analogica, pietre, giornali, frammenti di sculture classiche, reperti della memoria collettiva sottratti all’oblio del tempo e riportati alla luce come ologrammi, una specie di “ritorno al futuro”.

Come nasce la serie dei San Pietrini , un mix tra pietre e ologramma e un omaggio a Roma, la città eterna dove sei nata?

Esatto, è un omaggio a Roma e all’Otium  romano come attività dello spirito prediletta. Ho spedito una cassa di sanpietrini a Santa Fe per lavorarci, ma non sapevo come. August stava realizzando tante ellissi olografiche e lo studio mi sembrava una cappella, allora ho avuto un’illuminazione: San Pietrino! Ho separato la parola in due et voilà, the game is done! Mancava solo l’ologramma dell’aureola che poi abbiamo creato e posto sopra al “San Pietrino” diventando un “cult”.

Ci sono elementi figurativi di carattere mitologico nella serie Deus ex Machina. Quali obiettivi ti sei posta in questa nuova serie ?

La nuova serie Deus ex Machina consiste nell’assemblaggio del frammento classico e quello meccanico sincronizzati nell’ologramma e rimanda al significato della frase latina. Sto lavorando a un grande calco della testa di Atena, il cui volume luminoso fuoriesce dalla lastra e non si capisce come, una specie di “rompicapo”.

SAN PIETRINO! assemblage ologramma e pietra romana sanpietrino, 37×35 cm. Courtesy Dora Tass

Da anni vivi in New Mexico. Cosa fai per vivere e come vengono considerate le tue opere negli Stati Uniti?

Svolgo lavori saltuari nelle scuole affiancandoli alla mia pratica artistica e collaboro con qualche galleria. Tutte le opere hanno un feedback positivo, sono di maggior successo il San Pietrino e gli Holophones più  immediati da recepire, “l’occhio è un organo educato” come diceva l’antropologo americano Franz Boas.

Secondo te perché l’ologramma è poco considerato nelle pratiche artistiche contemporanee, mentre nell’ambito teatrale continua ad essere utilizzato con effetti scenografici straordinari ?

Gli ologrammi teatrali a cui ti riferisci non sono ologrammi, ma una derivazione digitale dei “Pepper ghost effect”. La vera olografia originale, quella da noi praticata, è totalmente analogica, simile alla prima fotografia del ‘900, in particolare quella di Gabriele Lippmann che il russo Denisyuk ha riadattato all’olografia dopo l’invenzione del laser, fonte di luce necessaria. Il problema è che i “rullini” olografici sono fuori mercato da tempo e il laser ha dei costi molto elevati unitamente a tutto il processo. I laboratori attivi sono pochissimi e quello di August Muth si caratterizza perchè lui si produce hand made l’emulsione olografica (DCG). È un medium poco accessibile e un’etnia quasi in via di estinzione.

San pietrino. museo. Courtesy Dora Tass

Oscilli tra materia e smaterializzazione. Quanto incide l’aspetto manuale, pratico, tecnico nel tuo lavoro ad alta risoluzione formale?

L’aspetto manuale incide tantissimo: prima si prepara il modello che deve essere pesante e stabile, spesso ricreato in metallo per avere la massima resa luminosa, poi si preparano le lastre di vetro con l’emulsione.  Una volta scattato il modello con il laser la lastra si deve sviluppare in grandi vasche di alcol che poi si devono sigillare per proteggere l’emulsione nel tempo e infine si deve lavorare il vetro. Un processo lungo e molto faticoso.

A quale progetto stai lavorando ?

La serie dei San Pietrini, gli Holophones, e Deus Ex Machina.