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18. Mostra Internazionale di Architettura a cura di Lesley Lokko. Biennale narrativa, didascalica con molte suggestioni e poca architettura
By Jacqueline Ceresoli
Pubblicato il
Giugno 2023
La 18. edizione della Biennale di Architettura a Venezia in bilico tra contenuto, forma e poetica, politica, società e cultura, è di taglio sociologico e narrativo. Novità 2023 è che propone la tipologia di un architetto practitioner, praticante che si muove in diversi ambiti tra paesaggio, ingegneria, accademia e design, progettazione e urbanistica, rappresentante di una società fluida all’insegna del transculturalismo, transgendrismo e trasformismo. I nuovi progettisti interdisciplinari condividono l’idea di una architettura che va oltre il limite costruttivo per aprirsi all’immaginazione, anche se a giudicare dai progetti esposti non si capisce come salvare il mondo e risolvere tutti i problemi del clima e dello sfruttamento del suolo a cui dovremmo, almeno, porre un argine per vivere meglio in futuro su questo Pianeta.
È una Biennale carica di intenzioni più che di architettura che nasce come piattaforma di scambio e riflessione intorno a progetti (per buona parte in corso d’opera) e di idee (di architetti giovani). Di taglio etnografico e più narrativa delle altre, sviluppa l’eredità sociologica avviata dal cileno Alejandro Aravena nel 2016 e continuata da Hashim Sarkis nel 2021. Ricordiamo che la Biennale di Venezia è stata certificata come manifestazione a neutralità carbonica, e questo è il primo passo per progettare il futuro.
La Mostra Internazionale di Architettura a cura di Lesly Lokko (una scozzese cittadina del Ghana, nata nel 1964), intitolata The Laboratory of the Future (aperta fino al 26 novembre), comprende 89 partecipanti, ed è incentrata sull’immaginazione del futuro, sui materiali e manufatti. Ma questa non è una novità. Piuttosto è più originale la proposta di aprire le porte sulle donne e sulle minoranze africane, sempre rimaste in ombra. L’Africa si pone come manifesto di nuovi paradigmi architettonici resilienti di come abitare il futuro. E un continente che comprende diverse, etnie, lingue, culture e religioni e differenti modelli architettonici, fragile, vessato da guerre civili, dittature militari, povertà, carestie, siccità, pandemie e disastri ambientali, che nel tempo sopravvive a crisi permanenti, basandosi su risorse e materiali locali. Tutto questo viene raccontato nel Padiglione centrale, ai Giardini, dove espongono 16 studi della sezione Force Majeure, il meglio della produzione architettonica africana e diasporica, e 32 esordienti. Delude di più la sezione scenografica Dangerous Liasons all’Arsenale, in cui prevale un aspetto “creolo”. Secondo lo spirito umanista di Lokko, che si è proposta di “esplorare e non spiegare il futuro”, vengono forniti indizi ma non soluzioni e questa mancanza di regia unitaria si percepisce passeggiando tra una gincana di progetti inconsistenti stipati tra Arsenale, Giardini e Forte Marghera. A tratti la Biennale ci sembra sciatta e come se non bastasse, anche l’allestimento lascia molto a desiderare.
Lokko ha fondato la Graduate School of Architecture dell’Università di Johannesburg (Sudafrica) e ha diretto Folio: Journal of Contemporary African Architecture, è autrice di racconti familiari di successo ambientati tra Africa, Stati Uniti ed Europa. In sintesi anche questa Biennale rispecchia un po’ la sua vita nomade, con umanissimi dubbi e incertezze che nei sui romanzi possono trasformarsi in opportunità per il futuro, ma in architettura può bastare?
Due sono le parole chiavi della sua Biennale, decarbonizzazione e decolonizzazione, orientata soprattutto sulle risorse umane e ambientali che devono essere equamente distribuite, perché secondo Lokko non c’è giustizia sociale senza quella ambientale. E siamo tutti d’accordo, ma restiamo delusi quando, in questo “laboratorio” sulle possibilità, fatichiamo a trovare soluzioni concrete. Sappiamo che la precarietà può essere una risorsa di rigenerazione, molto umana e poco tecnologica, ma, in una Biennale di Architettura, bisogna anche proporre meno suggestioni e più modelli di come abitare in questo mondo. Di buono c’è che si puntano i riflettori sulla diaspora dell’Africa, su una cultura fluida, capace di intrecciare persone di origine africana che vivono e lavorano in occidente, senza perdere i contatti con le proprie comunità e la propria cultura di appartenenza. Per esempio è interessante l’installazione di Flores Prats (lo spaccato imponente di uno studio con materiali di lavoro, disegni e modelli incompiuti di case brulicanti di vita), e quella di Adjaye Associates, che ha fatto ricorso a una serie di elaborati, progettati cinematograficamente, per illustrare i suoi interventi in Benin. Video e maxi schermi e documentari su questa o quella realtà sono una caratteristica della maggior parte dei padiglioni di questa biennale e, francamente, tutte queste storie alla fine non premettono di arrivare al come abiteremo il futuro.
Fatto positivo è che l’età media dei partecipanti è di 43 anni e di 37 nella sezione Progetti Speciali, il più giovane ha 24 anni, e viene rispettata la parità di genere. Oltre il 70% delle opere esposte sono state realizzate da un solo architetto o da un team ristretto, più incentrate sull’immaginazione del singolo individuo che sul sogno collettivo o dell’archistar (estinto) e gli artigiani, più che gli architetti, potrebbero trasformare il nostro modo di concepire l’architettura per riconfigurare un mondo più vivibile di quello attuale. In Africa ci sono diversi modelli di architettura, anche di influenza americana o europea, ogni regione ha climi, morfologie e contesti culturali differenti che non sono assimilabili a un unico modello di architettura africana. Queste diversità locali sono una risorsa e bisogna indagare come gli architetti africani stanno proponendo un modello “universale” in occidente, come fa, per esempio, Diébédo Francis Kéré, architetto burkinabé che ha vinto lo scorso anno il premio Pritzker, sempre fedele alla sua comunità di origine. Come è noto il Niger partecipa per la prima volta alla Biennale veneziana, un segnale importante, e inoltre, torna la Santa Sede, ospitata alla Fondazione Cini. Sono ineccepibili i padiglioni ai Giardini: Brasile (Leone d’Oro), Gran Bretagna, Belgio, Germania, Serbia, Giappone, Austria e Messico, mentre all’Arsenale sono da segnalare Uzbekistan, Lettonia e il padiglione del Bahrain per un progetto davvero innovativo, On Climate Conditioning and Ecology, incentrato sulle potenzialità ecologiche e rigenerative dell’aria condizionata per risolvere problemi di siccità in territori aridi.
Come nelle precedenti edizioni, questa biennale continua a muovere critiche pro o contro, con la speranza di trovare nella 19a edizione meno video racconti di curatori, muratori, e di chi sa chi e fa cosa in un certo luogo, ma più bellezza, una promessa di ottimismo, con progetti pronti, disposti e in grado di superare l’Antropocene a favore di fasce di umanità “fantasma”, sempre più invisibili all’occidente che sembra aver perduto il senso di responsabilità dell’architettura e cura dell’ambiente.
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