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Isabelle Huppert nella Berenice di Romeo Castellucci. Photo © Alex Majoli

Suono e luce scolpiscono e deformano il corpo e il linguaggio: la Bèrènice di Jean Racine rivista da Romeo Castellucci

By Cristina Tirinzoni
Pubblicato il
Aprile 2024

C’è un corpo. C’è un’anima. C’è la parola, immaginifica, poetica di Jean Racine, in versi alessandrini. C’è soprattutto, sulla scena, immersa in un buio fuligginoso, Isabelle Huppert. Straordinaria. È lei Bérénice, la “donna di teatro” per la quale Romeo Castellucci ha scolpito uno spettacolo degno della celebre tragedia di Racine. L’unica attrice che poteva cogliere e vincere la sfida lanciata – a lei e al pubblico – dal regista Romeo Castellucci, uno dei protagonisti indiscussi di un teatro dove tutti i linguaggi, spazio, luce, movimento, suono, concorrono alla creazione di un evento teatrale multisensoriale, ricchissimo di visioni. L’abbiamo vista In prima assoluta italiana, il 4 aprile al Teatro dell’Arte della Triennale di Milano (dopo il debutto al Théâtre de la Ville di Parigi, per poi intraprendere una lunga tournée europea, fino al 2025, da Lugano a Bochum, Ginevra, Lussemburgo, Anversa, Girona, Amburgo, Napoli, Clermont-Ferrand, Rennes).

Tra amore e ragion di stato

Al centro della tragedia scritta da Racine nel 1670 c’è l’amore tragico fra la regina della Giudea Berenice e Tito che, diventato imperatore, rinuncia a lei, alla vigilia delle nozze, in nome della ragion di Stato, perché Roma non la vuole.

Eccola, Bérénice Huppert. Disperatamente sola. Persa in questa terribilità immensa dell’abbandono. Perfettamente descritta dalla cupa atmosfera della musica aspra con le sue estreme dissonanze e suoni taglienti, creata da Scott Gibbons, in cui parole e suoni appaiono e svaniscono, si aggrappano e si respingono. Immersa nell’oscurità creata nel buio da tagli di luce (tecnico luci, Andrea Sanson). Così dimenticando che eravamo seduti nella platea di un teatro, finiamo implacabilmente conquistati, rapiti, catapultati, perduti nella solitudine assoluta di Huppert Berenice (“Lo amo, fuggo da lui: Tito mi ama, mi lascia”, Atto V, scena VII), imprigionata nei superbi costumi della prestigiosa stilista olandese Iris Van Herpen. Persa in questo spazio mentale che la schiaccia, confondendo il suo nome con quello di Bérénice, in un universo popolato da presenze spettrali, appena visibili nell’oscurità velata, dove i senatori romani tramano, si agitano.

Come al solito, Castellucci ci colloca ai margini del senso, in una zona di turbolenza cognitiva e visiva. Ovunque ci satura di un magma di nuovi linguaggi scenici. Di cosa siamo fatti? Cosa ci spinge? Sembra chiederci Castellucci elenca i minerali che contiene un corpo umano e che scorrono a un certo punto sullo schermo, carbonio, idrogeno, ossigeno, azoto, silicio, fosforo, zolfo, magnesio, e relative percentuali, ma non rivela nulla di quella cosa enigmatica che si chiama coscienza che comprende, prova sentimenti ed emozioni. E che dire di quei rotoli di nastro blu e rosso che si srotolano e si avvolgono all’infinito? E il gruppo di dodici giovani figuranti, nudi, che si affaccendano goffamente intorno a una croce e a un mucchio di corde (stanno portando in trionfo l’imperatore Tito?). E ancora: Tito e Antioco (Cheikh Kébé e Giovanni Manzo) con gli slip abbassati, che appariranno solo in scene abbastanza astruse, e restano in silenzio? Magniloquenti questi rebus visivi. Dentro un’architettura teatrale, fatta di pareti, veli e luci, spazi scenici che rimandano alle xilografie dantesche di Gustave Dorè e ai quadri di Goya (Castellucci è diplomato in Scenografia e Pittura all’Accademia di Belle Arti di Bologna).

Il disfacimento della voce e del linguaggio

Ma soprattutto i suoni dello spettacolo sono generati dalla voce di Isabelle Huppert (elaborati dall’artista Scott Gibbons): il suo canto di versi raciniani avanza, come lava vulcanica, pressato da un gong. Una spaventosa nebbia di parole distorte dal voice decoder, parole, prive di alfabeti comprensibili, fino al punto di essere un rottame metallico. Filtrati fino all’inudibilità, balbettati fino all’estinzione (la tragedia è recitata in francese con sopratitoli in italiano). Crisi del linguaggio? L’essere umano vuole esprimere sentimenti ed emozioni che il linguaggio non è in grado di dire? Roland Barthes, a tal proposito, aveva parlato di Bérénice come di una “tragedia dell’afasia”. Dire “ti amo” per Tito è anche dire “ti lascio” e Tito non ha il coraggio di dirlo a Berenice. Allora è meglio tacere. Per questo la parola nella tragedia “genera silenzi”. Perché la parola che esce dalla bocca non è verità, la verità si trova negli occhi, nello sguardo che grida.

È in questo contesto di disfacimento linguistico, al centro dello spazio scenico, Bérénice Huppert, sorta di moloch inenarrabile. Per 1 ora e 40 minuti, l’attrice vaga per la scena protetta solo dal velo che costruisce la quarta parete, trascinando persino un termosifone (bisogno di calore?) con una coperta da senzatetto, con una tazza in mano (ma cosa ha fatto Isabelle Huppert per meritarsi tutto questo?).

Il suono, assieme alla luce, sembrano scolpire e deformare la voce. Il corpo subisce il linguaggio. Anche la sua voce non le appartiene più. Grida e sussurra invettive. Delle sue rauche verbalizzazioni non capiamo molto, se non una ferita infinita che fa perdere anche il linguaggio. Del testo di Racine restano alcuni lampi sontuosi incastonati in lunghi passaggi dove la voce è distorta, metallica, il fraseggio a scatti, spezzettato fino a sfociare nel grido, intimando “Non guardatemi. Non guardatemi” (rivolta agli spettatori). Poi un silenzio fragoroso. Tenace, solenne. Berenice decide di andarsene da Roma, di lasciare Tito che ama. Di tornare sola in Giudea. La tragedia di Castellucci si spinge fino al limite dell’abisso oltre il quale non c’è più nulla da dire, da vedere: solo lo schianto dodecafonico di un buco nero, in cui Huppert si curva sotto il proprio peso e nega se stessa. Una sorta di fermo immagine. Della condizione di solitudine dell’artista e dell’essere umano. Questa sorta di lento svanire alla fine che scivola come una increspatura sull’acqua o sul fondo dell’anima. Quasi la promessa di una pienezza di vita nell’assenza.

Si esce frastornati, ci si domanda cosa è stato, cosa abbiamo visto? Non è possibile esaurire i significati di uno spettacolo che non necessita di essere compreso in ogni suo passaggio, anzi, necessita a volte di non essere compreso. Richiede semmai che lo spettatore si stupisca. Di ciò che vede sul palcoscenico, di ciò che vede attorno a sé. Di ciò che vede dentro di sé. Ecco perché il teatro di Castellucci è potente come un rito sacro. A volte gli artisti sembrano compiere un miracolo, quello di far accadere qualcosa in noi.

AUTHOR

Cristina Tirinzoni

Cristina Tirinzoni, laureata in scienze politiche, giornalista professionista di lungo corso, ha collaborato con le maggiori testate femminili, occupandosi delle pagine di cultura, libri, teatro, arte. Convinta che la bellezza (forse) salverà il mondo e che non si finisce mai di scoprire e di raccontare grandi e piccoli costruttori e seminatori di bellezza. Ha pubblicato due libri di poesie Sia pure il tempo di un istante (Neos edizioni) e Come un taglio nel paesaggio (Genesi editore)

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