INDICE
- 1 Pamela. Per prima cosa che ti viene in mentre se ti dico Luce?
- 2 Pamela Villoresi
- 3 In casa: luce calda o fredda?
- 4 Lampade di design preferite?
- 5 Sul palcoscenico quali luci prediligi?
- 6 Come interagisci con l'illuminazione sul palcoscenico?
- 7 Un tuo ricordo personale al riguardo?
- 8 Com'è stato il tuo esordio al Piccolo Teatro di Milano e il tuo incontro con Giorgio Strehler?
- 9 Anche tuo marito Cristiano Pogany (scomparso prematuramente nel 1999) è stato un bravissimo direttore della fotografia
- 10 Come è nato il fuoco sacro per il teatro?
- 11 Dal 2019 sei alla guida del Teatro Biondo di Palermo, la sesta donna in Italia che dirige un teatro italiano, unica donna attrice a dirigere uno stabile pubblico. Bilancio?
- 12 Ci auguriamo che il CdA del Teatro Biondo di Palermo ti riconfermi a dicembre alla guida del teatro simbolo per la città. Diversamente, che programmi hai?
- 13 E poi c’è lo sport…Fai ancora canottaggio?
Incontro con Pamela Villoresi, una vita nel mondo dello spettacolo. “Talento naturale prediletto” (così la definì Giorgio Strehler), per brevità chiamata attrice (teatro, cinema e televisione). Regista. Alla guida del Teatro Biondo di Palermo per il cinquennio 2019/2024. Attualmente in scena con La ragazza seduta sul divano di Jon Fosse, premio Nobel per la letteratura 2023, per la regia di Valerio Binasco, disegno luci di Nicolas Bovey.
Pamela. Per prima cosa che ti viene in mentre se ti dico Luce?
Vitaaa! Io adoro la luce perché porta calore e anche energia. Vivo di luce, la cosa che soffro di più nei mesi invernali è proprio la mancanza della luce. Il buio non mi piace. Dormo a persiane aperte, perché appena arriva la luce voglio vederla. Per me la luce è semplicemente la vita. Nel risveglio all’alba, Faust si desta rasserenato, su un prato fiorito, guarda il sole e Goethe fa dire nel canto di Ariel: “Quale tumulto porta la luce”. A Palermo, dove vivo da quando dirigo il Teatro Biondo dal 2019, ho trovato a casa a Mondello con vista mare. Ho anche un buen ritiro in maremma, all’Argentario, il mio posto del cuore, ma non ho mai visto cieli azzurri, così tersi e limpidi come quelli siciliani. Di luce assoluta.
Pamela Villoresi
Incontro Pamela Villoresi nel suo camerino, nel “sottosuolo” del teatro Strehler in largo Greppi a Milano dove si prepara per andare in scena con La ragazza sul divano. In forma smagliante, un vestitino leggero a fiori, le belle gambe dalla muscolatura perfetta già abbronzate (“grazie al canottaggio”). Parla con la sua voce gentile e cristallina, con semplicità e con quella giusta dose di narcisismo d’attore. Parla e intanto con la piastra arricciacapelli si ingegna a creare morbide onde ai capelli biondi con ciuffo svolazzante. Tra un tocco di mascara, un po’ di blush, e una pennellata alle mani come le tempere colorate, vedrò Pamela Villoresi trasformarsi progressivamente nel personaggio di La Donna protagonista della piece di Jon Fosse (romanziere e drammaturgo scrittore norvegese premio Nobel per la letteratura) con la regia di Valerio Binasco, scenografia e disegno luci di Nicolas Bovey (e poi tournée a Roma,
Napoli e Palermo). Una donna di mezza età, la gonna plissettata macchiata di vernice, grossi calzettoni e niente scarpe, che vedrò seduta a un tavolino sulla metà destra del palco, intenta a dipingere il ritratto di una ragazza seduta su un divano. “Come dice il filosofo Jacques Derrida, davanti a un quadro non si guarda, ma si è guardati”. Quella ragazza non è altro che il ritratto di lei stessa da giovane, immobile, imbronciata, scontenta, insicura, impietosa nel guardare quella sua opera che s’è allargata sul muro. Fa la pittrice ma dice di sé di non saper dipingere, “non ho mai dipinto un bel quadro in tutta la mia vita”, travolta dalla solitudine, nell’eterna attesa di un padre nel padre marinaio che non ritorna mai e che fa sentire la sua presenza di tanto in tanto e solo attraverso una cartolina spedita dai vari Paesi che tocca durante le soste della navigazione. Strattonata dalla rabbia per una vita che non si è saputa disegnare come la si voleva, le cui campiture sono uscite dai margini. Pamela sciacqua il pennello e poi riprende a dipingere la mano. “Intorno a La Donna si muove il resto della famiglia: la madre, la sorella, lo zio. La forza di questa messa in scena sta nei tempi mescolati: tutto sulla scena accade in modo simultaneo. Scena dopo scena, ricordi, schegge della vita di Donna coesistono simultaneamente al presente in una affascinante sincronicità. L’illuminazione concepita da Nicolas Bovey marca la grandezza fisica del ricordo, del tempo scaduto. Dei corpi che detengono potenziali pianti, e urla di rabbia lì per esplodere, sotto la crudele luce del nord”.
In casa: luce calda o fredda?
Calda! E mi piace che sia una luce diffusa non centrale, anche in cucina le strisce LED posizionate sotto i pensili le ho volute bianco caldo, con una temperatura intorno a 3.000 Kelvin, che emette un colore che assomiglia alla luce solare.
Lampade di design preferite?
Ce ne sono un sacco. Non amo andare per negozi, gli unici a cui non si resistere sono quelli di arredamento e in particolare quelli di illuminotecnica. Illuminare è arredare. Su tutti, vado pazza per le lampade di Ingo Maurer, un designer (scomparso nel 2019, ndr), ma non sempre me le posso permettere, ma Luccellino ce l’ho! Me lo sono regalata anni fa per la casa di Roma e adesso l’ho portata con me a Palermo. Una lampada da tavolo con le ali. Vetro, ottone, plastica, ali fatte a mano con piume d’oca. La creatività di Maurer attraverso l’illuminazione evoca stupore ed eleganza, umorismo e leggerezza. Sorprende anche nei nomi. Il lampadario a sospensione Porca Miseria, creato assemblando pezzi di porcellane cinesi rotte, una forma di protesta contro il design degli anni ‘90. Lacrime del Pescatore, un oggetto luminoso composto da tre reti in nylon con cristalli in vetro. Se installato in una posizione strategica, brilla anche di giorno alla luce del sole. La Festa delle Farfalle: 34 farfalle e una libellula in carta.
Sul palcoscenico quali luci prediligi?
Tutte! L’illuminazione non è un dato fisso, ma in relazione allo spettacolo, e cambia dunque di momento in momento, seguendo la drammaturgia crea “l’aria” e l’atmosfera nello svolgersi della rappresentazione. Con una luce diversa cambia un’emozione, una stanza, un viso. Sono le luci a direzionare la visione dello spettatore quasi inconsciamente. Parlando in generale, mi piace il controluce di taglio, con colori forti e drammatici, è la luce che illumina solo parzialmente il viso, creando delle ombre.
Come interagisci con l'illuminazione sul palcoscenico?
La luce cambia il modo di stare sul palcoscenico, dell’attore, c’è un dialogo continuo, se cambia la luce non puoi continuare a recitare nello stesso modo di prima. E al tempo stesso aiuta a trasmettere al pubblico, enfatizzare le emozioni che gli attori vogliono comunicare. La luce, quindi, diventa un “terzo attore”, che agisce a fianco degli attori, animando la scena. Imparai subito questa lezione proprio con Giorgio Strehler: una luce cambia un’emozione. Strehler aveva un senso musicale della luce, si serviva di continui cambi di luce come una partitura, modulandone proiezioni e intensità, ottenendo come un mago alchimista suggestioni oniriche dalle atmosfere incantate e piene di poesia.
Un tuo ricordo personale al riguardo?
Correva la stagione 1979/80, Giorgio Strehler decise di allestire al Piccolo Teatro un dramma di August Strindberg, Temporale. Io interpretavo Louise, la domestica silenziosa e inquietante. Strehler ci chiedeva un lavoro di immobilità, di congelamento dei sentimenti, e invece ci muovevamo tutti in modo un po’ esagitato secondo i canoni dell’estate mediterranea, a ingannarci era il contesto della piece che si svolgeva a fine agosto, mentre nel Nord Europa è già il tempo in cui si accendono i termosifoni, i cieli sono plumbei perché iniziano i temporali. Anche io muovevo la testa troppo velocemente e non mi sentivo giusta. Strehler allora fece montare delle lampadine delle Sirio allora all’avanguardia, gelide e spettrali, ghiacciate, e immediatamente si congelò qualcosa dentro di noi, improvvisamente cambiò anche il nostro modo di muoverci e di stare sul palcoscenico. Quella luce mi ha dato la chiave per il mio corpo che ha cominciato a esprimersi istintivamente con gesti più contenuti.
Com'è stato il tuo esordio al Piccolo Teatro di Milano e il tuo incontro con Giorgio Strehler?
Ero a Milano per lo spettacolo Marco Visconti, uno sceneggiato televisivo prodotto dalla RAI nel 1975 e diretto da Anton Giulio Majano. Giorgio Strehler mi chiese di fare un provino per Il campiello e lo feci. Conservo incorniciato il biglietto che mi scrisse per il debutto. “Talento naturale prediletto, un augurio a te per un successo che ti meriti”.
Anche tuo marito Cristiano Pogany (scomparso prematuramente nel 1999) è stato un bravissimo direttore della fotografia
E infatti mi vanto di essere una attrice che sa “prendere le luci” e i registi me lo dicono, perché proprio con lui ho acquisito una attenzione particolare per le luci e ho imparato a usarle. Ricordo lo spettacolo, Marina e l’altro, sulla poetessa russa Cvetaeva, da me diretto e interpretato, Cristiano mi ha messo dei tagli di luce bellissimi, giocando sulla valorizzazione della luminosità del volto, enfatizzandone solo alcune zone, mi chiedeva di prendere la luce solo fino al naso senza che sparasse sull’alta parte del viso in ombra.
Come è nato il fuoco sacro per il teatro?
Volevo fare l’attrice da quando avevo sei anni. Studio ragioneria perché il mio papà sperava che mi sarei occupata della ditta, la tipica industria tessile a conduzione familiare nel pratese. Ma già al primo anno, aprì in città il Teatro Studio del Metastasio, e fu la catastrofe (ride). Ci venimmo in tanti, anche Benigni. Capii che lì cominciava la mia vera vita. Finì che lasciai la scuola. Presi il sacco sulle spalle e seguii la mia strada. Mi trasferii a Roma. Vivevo a Trastevere con una ballerina, una mima e una scrittrice argentina. Ho cominciato a recitare nei circuiti alternativi del teatro off. I soldi erano pochi. Con il denaro mi iscrivevo a corsi di danza e di canto, studiavo le lingue: investivo su di me. A 18 anni mi sono presa un Maggiolone usato, per essere indipendente. Il mio libretto di lavoro è datato marzo 1972. Da allora non ha mai smesso di lavorare. Anche con i bambini piccoli, (da Pogany ha avuto i figli Eva, Tommaso e Isabel, adottata, ndr). Quello è stato un momento in cui è stata veramente dura. Quando partivo in tournée, certe partenze erano degli strappi a mani tese dai miei affetti.
Dal 2019 sei alla guida del Teatro Biondo di Palermo, la sesta donna in Italia che dirige un teatro italiano, unica donna attrice a dirigere uno stabile pubblico. Bilancio?
Positivo, con la consapevolezza di avere fatto un buon lavoro nella formazione e valorizzazione dei giovani artisti. Abbiamo aperto il primo corso di laurea in Italia in Recitazione e Professioni della Scena, una scuola che richiama studenti anche da fuori Regione. Ci tengo a dire che una quindicina degli ex allievi della scuola sono impegnati in stagione con noi, e adesso girano l’Europa. E quando ho portato a Parigi lo spettacolo di Aurélien Bory, che ho prodotto con tutti artisti nostri, ho provato una grande felicità a sentire gridare al Théâtre de la Ville “bravò, bravò”. La mia formazione teatrale è stata molto europea, quando ero al Piccolo Teatro di Milano con Giorgio Strehler abbiamo fondato nel 1990, assieme all’allora Ministro della Cultura francese Jack Lang, l’Unione dei Teatri europei. Mi ricordo la meraviglia dell’andare in tanti Paesi, dove si parlavano anche lingue diverse, proprio come oggi, ma ci univa un’unica lingua teatrale.
Ci auguriamo che il CdA del Teatro Biondo di Palermo ti riconfermi a dicembre alla guida del teatro simbolo per la città. Diversamente, che programmi hai?
Continuo e continuerò a recitare. Ho appena finito di girare il nuovo Don Matteo. Porterò in scena Guerra e pace, con la regia di Luca De Fusco, neo direttore dei teatri stabili di Roma (già direttore del Teatro stabile di Catania). C’è un progetto con Emma Dante e ancora tanto Binasco.
E poi c’è lo sport…Fai ancora canottaggio?
Mi alleno tutti i giorni. La folgorazione per il canottaggio è stata a Torino, dove ero per girare uno sceneggiato. sul Po, per la prima volta vidi scivolare via leggere come libellule eleganti canoe con un equipaggio che remava all’unisono. Appena rientrata a Roma mi iscrissi al Circolo Canottieri Tre Ponti e cominciai a prendere lezioni. Quando ho cominciato mi sentivo come la papera nel lago dei cigni. Ma subito scoprii che remando nella stessa barca si crea una straordinaria rete umana. Che sostiene, si diverte, si impegna e si aiuta.
Quando poi sono arrivata a Palermo, ho cominciato a gareggiare sulle coastal rowing (canottaggio costiero, ndr), barche molto stabili e pesanti. Ogni giorno, prima di cominciare l’allenamento tiriamo giù da sole lunghe barche da 180 chili. Non facciamo neanche tanta fatica, perché a darci forza è anche il nostro motto: “Coordinate insieme, si fa”. L’anno scorso abbiamo vinto 2 ori, 3 argenti e un bronzo. L’impegno e il gioco di squadra ripagano. Succede così anche nelle compagnie teatrali. Remare insieme è una gioia!
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