Nella progettazione della luce è sempre più sottile la barriera tra il “dentro” e il “fuori” e le città diventano luoghi pensati per incontri e socialità in cui l’illuminazione riveste un ruolo fondamentale.
IN & OUT
Giano è la divinità squisitamente italica che presiedeva alle porte e ai cambiamenti, grazie alle sue due facce. L’archetipo del “passaggio” si ritrova in qualsiasi epoca e richiama sentimenti di paura, incertezza, ma anche speranza e cambiamento e ci si affidava a entità superiori quando si doveva varcare l’ignoto.
Oggi non abbiamo più Giano a proteggerci e le barriere si sono fatte sempre più labili. Prendiamo atto che le nuove generazioni vivranno in un mondo dove la divisione fra “dentro” e “fuori” non sarà più così netta come in passato: scompaiono le porte, gli edifici si riempiono di vetri e le piazze (che possiamo intendere sia fisiche che virtuali) diventano estensioni della vita domestica.
Da fuori a dentro
Con il libro Architettura di vetro, Paul Scheerbart promuove un’idea rivoluzionaria: il vetro come materiale architettonico del futuro, in grado di creare edifici trasparenti, fusi con la natura e capaci di offrire nuove esperienze spaziali. La “civilta dell’intérieur borghese” che privilegiava la privacy e la chiusura dell’interno rispetto all’esterno, con tendaggi e schermi fra “dentro” e “fuori”, aveva ormai esaurito la sua funzione ed era necessario abbracciare una nuova visione dell’architettura basata sulla luce e sulla trasparenza.
Più tardi, ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Walter Benjamin utilizza l’esempio del vetro per dimostrare come la tecnologia possa eliminare la cosiddetta “aura”, ovvero quella qualità misteriosa e unica che circonda gli oggetti d’arte.
Ma e solo con la costruzione di villa Farnsworth che Mies van der Rohe rende tangibile questa idea, grazie alla struttura minimalista e
l’ampia superficie vetrata che crea una sensazione di permeabilità tra interno ed esterno e una forte connessione tra l’architettura e il paesaggio.
L’idea che gli interni non siano più antri protetti, bui, in cui l’uomo si rifugia dai pericoli, ma strutture aperte e capaci di offrire una vista sull’esterno e quindi luce, si è poi estesa anche ad altri ambiti. Oggi la progettazione della luce naturale negli edifici è uno degli elementi di qualità più richiesti.
Ma un ambiente interno ha anche bisogno di luce artificiale (anzi, “luce elettrica” per usare le parole dell’architetto Castiglioni). I più recenti studi hanno dimostrato come la luce sia il principale “zeitgeber” dei ritmi circadiani (zeitgeber è un fattore esterno che sincronizza il nostro orologio biologico). L’uomo si è evoluto (e quindi il suo corpo è fatto) per vivere in condizioni di luce intensa durante il giorno e di luce soffusa durante la notte. Esattamente il contrario di quello che abbiamo fatto negli ultimi cento anni.
Occorre quindi che la luce elettrica negli ambienti interni riprenda dall’esterno la capacità di integrarsi con la luce naturale durante le ore del giorno e di aderire quanto più possibile alle esigenze del nostro orologio biologico durante la notte.
Gli apparecchi illuminanti non sono più solo oggetti di arredo, ma diventano a tutti gli effetti strumenti capaci di integrarsi con la luce naturale (non a caso si parla di “integrative lighting” nella ISO/CIE TR 21783), mediante sensori, intelligenza artificiale e la possibilità di modulare intensità e spettro a seconda delle condizioni in cui si trovano a operare.
Allo stesso modo, dando per scontato che nei nuovi edifici la progettazione della luce naturale diventi una consuetudine, per gli edifici già esistenti si aprono interessanti possibilità come l’utilizzo di collettori capaci di convogliare la luce del sole e l’uso di pannelli luminosi in grado di replicare in maniera fedele una finestra o un lucernaio.
Da dentro a fuori
Jane Jacobs, famosa attivista urbana, ha scritto che “le grandi città hanno difficoltà in abbondanza, perché hanno persone in abbondanza”. All’epoca la popolazione mondiale era meno della metà di quella attuale e oggi si ipotizza che nel 2050 più dei 2/3 vivrà in grandi citta.
Tuttavia, la sua idea di coinvolgere i cittadini dal basso per trasformare le comunità ha rivoluzionato il modo in cui pensiamo agli agglomerati urbani e ha fatto capire che era possibile ripristinare il senso di bene collettivo degli spazi aperti, al netto dei tentativi fatti dalle diverse amministrazioni cittadine per recuperare alcuni aspetti di quel passato comune, progettando aree pedonali, piste ciclabili, parchi urbani, ecc. Oltre a quelli creati dagli interventi istituzionali, crescono così nuovi spazi generati dalla prassi urbana: gli spazi eterotopici descritti da Lefebvre che nascono da ciò che le persone fanno, sentono, percepiscono e riescono ad articolare quando sono alla ricerca di un senso nella loro vita quotidiana.
Uno degli esempi più recenti è la trasformazione di alcune strade simbolo di New York da parte di Janette Sadik-Khan, commissaria per i trasporti dal 2007 al 2013 che ha realizzato in maniera sistematica micro-interventi volti a migliorare la mobilità sostenibile e la socialità urbana. Lo stesso approccio e stato poi adottato a Milano con il programma Piazze Aperte. Un altro esempio sono le Leefstraat di Ghent in Belgio, una rete di strade di quartiere che sono state trasformate da spazi per le auto a spazi per la socialità e il gioco dei bambini.
Cambia quindi il modo di interpretare e vivere la città: non più una serie di luoghi isolati da raggiungere tramite veicoli a motore, ma spazi che rappresentano un prolungamento del proprio “salotto” all’esterno, modellati dalle persone così come si modella la propria casa a propria immagine e somiglianza.
E se cambia il modo di vivere e interpretare la città, cambia necessariamente anche il modo di illuminarla. Per il Convegno nazionale AIDI del 2022 svoltosi a Napoli, ho scritto che “il progetto della luce per gli ambienti urbani dovrebbe avere come obiettivo principale una fruizione egualitaria degli spazi pubblici durante le ore di buio, sia in città che in periferia, finalizzata a garantire un’esperienza positiva in termini di funzionalità, comfort, estetica, sicurezza e interazione sociale”.
Da una illuminazione strettamente funzionale, legata a criteri di buona visibilità e sicurezza, si passa a una di contesto che favorisce l’incontro fra le persone dove l’illuminazione di emergenze architettoniche non e più finalizzata alla spettacolarizzazione che fa vivere ai turisti l’emozione di un parco storico a tema (e che ha condannato già diverse città meta di turismo incontrollato), ma diventa il corollario di una esperienza condivisa della propria città.
La trasformazione e già in atto: vedo sempre più apparecchi progettati per una illuminazione più piena, non dedicata solo alle superfici orizzontali e lo sviluppo di sistemi a luce dinamica (sia in termini di intensità che di colore), attraverso l’interconnessione degli apparecchi con sistemi di controllo avanzati.
Il colore e forse ancora più importante per gli esterni che per gli interni: una illuminazione di accento su oggetti o percorsi (perché no, colorata) può migliorare l’identificazione e la percezione dei luoghi (senza dover per forza scadere nel kitsch).
E, infine, la dinamicità dell’illuminazione diventa fondamentale per calibrare la giusta alternanza fra luce e buio: non smetterò mai di rimarcare quanto il buio sia importante tanto quanto la luce nell’esaltare le emergenze architettoniche e naturali durante le ore notturne.
Fra passato e futuro
Giano, grazie alle due facce, era considerato il guardiano del tempo e della transizione, perché capace di guardare contemporaneamente sia al passato che al futuro.
In Italia abbiamo una grande tradizione di design e uno dei patrimoni architettonici più vasti del pianeta. Abbiamo tutte le carte in regola per poter proporre un nuovo modo di intendere il progetto della luce che vada al di là delle distinzioni da catalogo fra interni ed esterni e che miri al valore sociale ed esperienziale dell’illuminazione. Magari affidandoci proprio a Giano per un buon auspicio.
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