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Assemblaggi di ruote, ferraglie, rottami meccanici e rumori: le macchine inutili di Jean Tinguely al Pirelli HangarBicocca a Milano
By Jacqueline Ceresoli
Pubblicato il
Ottobre 2024
INDICE
Il 17 marzo del 1960 un catafalco meccanico composto da un assemblaggio di ferraglia, una bicicletta, un carretto, una radio, una rotativa, un pianoforte, insieme a del fumo, inizia a muoversi e a produrre cacofonie meccaniche davanti a un pubblico dell’Abby Aldrich Rockefeller Sculpture Garden di New York. Ed è subito show e critica alla modernità. Stiamo parlano di Hommage à New York, una gigantesca scultura creata per autodistruggersi grazie un comando a distanza di Jean Tinguely (Friburgo, Svizzera, 1925-Berna 1991), erede di Kurt Schwitters, artista dadaista che negli anni Venti introduce nell’arte tutti i materiali trovati o di uso quotidiano come alternativa alla pittura e scultura, un avanguardista che, nei suoi studi di Basilea, aveva conosciuto le idee della scuola e la costruzione del Bauhaus. In occasione del centenario della nascita di Tinguely, Milano lo celebra e lo accoglie con la più importante retrospettiva italiana, allestita nelle Navate di Pirelli HangarBicocca a cura di Camille Morineau, Lucia Pesapane, Vincente Todolì con Fiammetta Griccioli, organizzata da Pirelli HangarBicocca in collaborazione con il Museo Tinguely di Basilea. L’artista svizzero, in questa straordinaria cornice, ci dimostra che anche la macchina e gli scarti della modernità assumono la stessa dignità artistica dei materiali tradizionali con opere eseguite dagli anni Cinquanta ai Novanta in cui la tridimensionalità di un realismo fisico eccentrico inscena la parodia della macchina in maniera ironica e gioiosa. Dopo le sue prime mostre a Parigi, Tinguely aderisce al movimento Nouveau Réalisme, fondato da Pierre Restany (1960), e incentra la sua ricerca prima sugli effetti cinetici, influenzato com’era da Alexandre Calder, poi comincia a enfatizzare i meccanismi sgangherati, rumorosi, assurdi e non armonici prodotti dalle sue macchine inutili, votate alla distruzione.
Per capire il suo mondo dispotico e a suo modo armonico basta immergersi nell’imperdibile mostra nell’ex edificio Pirelli, con strambe installazioni dove, tra prelievo di rottami recuperati anche dall’immondizia, dissacrazione e ricostruzione, accumulo di ferraglie insieme al rumore e il movimento, Tinguely inventa una nuova scultura creata sulle potenzialità espressive della macchina, contro la scultura tradizionale (fino al 2 febbraio 2025, ingresso libero).
La poetica di Jean Tinguely
Macchine, suono, movimento sono gli “attori” del suo meraviglioso Lunapark contro l’iperconsumo che nell’ex officina Pirelli trovano il contesto ideale in cui tutto è assurdo, ironico e dove rimbomba il rumore da intendere come critica alla civiltà moderna della fabbrica, luogo di lavoro e alienazione; una parodia anticipata nel film Tempi Moderni (1936) di Charlie Chaplin.
Le sue macchine insensate in ferro, acciaio e lamiere, destinate a incepparsi, come gli assemblaggi di bobine, catene, ruote e altri materiali di scarto meccanici, uniti a frammenti domestici (scolapasta, lampadine, pupazzi), ossa e pellicce di animali e tanto altro ancora, rappresentano la critica al consumismo, celebrato invece dalla Pop Art. Così Tinguely ironizza sulla tecnologia e sull’industria, sulla sua presunzione di sostituire anche i processi costruttivi basilari, da sempre compiuti dall’uomo. È una visione dissacrante la sua, di un artista cresciuto nella patria del Dadaismo (1916) e che nella pratica dell’assemblaggio supera il prelievo del reale a favore di una riappropriazione del suo significato attraverso materiali di scarto e del fascino dell’oggetto in sé, contro l’usa e getta, a favore del riciclo e della rigenerazione estetica.
Macchine che celebrano e deridono le macchine
Nell’ex officina meccanica, in questa mostra concepita come una scenografia sonora e visiva con 40 opere (per metà provenienti dal museo di Basilea dedicato all’artista svizzero), che occupano la quasi totalità dei 5mila metri quadrati delle Navate, c’è una fusione totale tra il contenitore e le sculture cinetiche frastornanti che si attivano una sola volta ogni venti minuti, per sorprendere il visitatore con coreografie meccaniche ed eccentriche visioni incastonate nel buio. Questa retrospettiva milanese, dopo quella del 1987 a Palazzo Grassi a Venezia, concepita in dialogo con quella di Niki de Saint Phalle (Neuilly-sur Seine, 1930-San Diego, 2002) al Mudec, compagna di una vita consacrata alla sperimentazione artistica, è unica anche perché mette in luce il rapporto dell’artista con Milano. La mostra parte dai lavori degli anni Cinquanta, ancora influenzati dai Mobiles di Alexander Calder (1898-1976), leggeri come l’aria e realizzati in filo di ferro, fino alle opere cinetiche monumentali e rumorose e a quelle luminose degli anni Novanta in cui al suono e movimento si sostituiscono effetti luminosi. Ciascuna opera viene attivata per un periodo specifico, seguendo una scenografia prestabilita in cui, tra ruote in movimento e rumori improvvisi, le sculture cacofoniche di Tinguely sono all’insegna dello sconfinamento tra i generi, perché l’arte si fa con tutto se si hanno idee innovative.
Tra le altre sculture cinetiche incontrate subito, varcato l’ingesso della mostra, troviamo tre lavori importanti, Sculpture méta-mécanique automobile (1954), Méta-Herbin (1955) e Tricycle (1954), che rappresentano il corpus più storico presentato in questa esauriente retrospettiva. Attenzione perché si tratta di opere ancora influenzate dalle sperimentazioni dell’astrattismo geometrico dei primi del Novecento, realizzate in filo metallico. Tinguely nel 1954 debutta a Parigi, capitale delle avanguardie europee, dove tiene la sua prima mostra personale alla Galerie Arnaud, comprensiva di un corpus di sculture in filo metallico note con il nome di Méta-mécaniques, composte con piccoli motori elettrici che facilitano il movimento di alcune parti delle sculture stesse. Il prefisso di derivazione greca “méta” indica qualcosa di “trascendente” materializzato nelle sue sculture stranianti, come si vede in Méta–Maxi (1986) al Pirelli HangarBicocca.
Le sue macchine cinetiche inutili, create senza nessuno scopo produttivo, seducono i bambini di tutte le età, si muovono ammantate dall’oscurità dell’hangar introducendo suono e movimento nell’arte. Nel dicembre del 1954, l’artista designer italiano Bruno Munari (1907-1998), interessato all’Arte cinetica programmata, invita Jean Tinguely a presentare Tricycle (1954), opera realizzata con ingranaggi di filo metallico che ricorda la forma di un triciclo, nello Studio d’Architettura B24 di Milano, dove Tinguely torna con Niki de Saint Pahalle nel 1970 in occasione della celebrazione del decimo anniversario del movimento Nouveau Réalisme, promosso in Europa e negli Stati Uniti da Pierre Restany (1930-2003). Il 1970 è l’anno in cui Tinguely presenta in Piazza Duomo La Vittoria, chiamata dall’artista anche Il suicidio della macchina, spettacolare performance del monumento fallico in legno, di oltre dieci metri, che il 28 novembre lancia petardi in cielo per quasi mezz’ora, con il sottofondo della canzone O Sole mio, fino ad autodistruggersi: una vera e propria cerimonia funebre per il movimento, che si svolge tra il 27 e il 29 novembre, alle nove di sera, ricordata da preziosi materiali d’archivio e disegni esposti nella Lab room di Pirelli HangarBicocca.
Da subito scioccano Cercle et carré-éclatés (1981) e Méta-Maxi (1986), scenografiche sculture realizzate assemblando ruote, cinghie, motori elettrici, componenti meccanici, personaggi in plastica e peluche che sbucano da ingranaggi, allontanando la macchina dall’idea di perfezione, che rimandano al concetto di catena di montaggio che nell’ex officina Pirelli assume altri significati preganti contro il funzionalismo più modernista. Emana una luce diafana la monumentale scultura retroilluminata, composta da una serie di ruote di diverse dimensioni azionate da cinghie caratterizzate dalle superfici monocrome nere, intitolata Requiem pour une feuille morte (1967), ideata per il Padiglione svizzero all’Esposizione Universale di Montral, ispirata all’esperienza dell’artista come scenografo per il sipario meccanico del balletto L’Eloge de la Folie del celebre corografo francese Roland Petit (1924-2011), inscenato a Parigi l’anno precedente. Dopo il successo di Homage to New York (1960), di cui si è scritto sopra, l’installazione di 7 metri di lunghezza e 8 metri di altezza composta da circa 80 bicilette, oltre a tricicli, ruote, una vasca da bagno, campane, clacson, bottiglie, lattine e vari motori, un marchingegno assurdo che si distrugge in 27 secondi, Tinguely, sempre più spettacolare, consacra la vita per l’arte, individuando nel funzionamento della macchina un non so che di ludico e poetico.
Passeggiando tra insensati ingranaggi stridenti e coreografie metalliche, nel buio dell’hangar si accendono le sue “sculture lampada”, prodotte dal 1972, in cui il movimento è secondario rispetto alla funzione primaria dell’illuminazione, come per esempio si vede in Lampe No.2 (1972) che include, oltre alle lampadine colorate, un uccello imbalsamato e cavi elettrici. Tinguely negli anni Ottanta installa anche lampade a parete e a soffietto, ampliando dimensioni, per decorare bar e caffè, come Lampe (1990). Negli stessi anni l’artista produce lampade di dimensioni monumentali: in mostra seduceno L’Odalisque (1989) e Luminator (1991), opere realizzate con assemblaggi di lampade da lui create. La collaborazione tra Jean Tinguely e Niki de Saint Phalle, iniziata nel 1967, quando, innamorati come adolescenti, entrambi separati, vivono una travolgente passione amorosa e artistica che culmina nella scultura composta da un mosaico di pezzi di specchi Le Champignon magique (1989), simile alla forma di un fugo allucinogeno, con effetti caleidoscopici, diviso in due sezioni distinte: da un lato c’è Nana, dea della fertilità dalle forme generose caratteristica di Niki, dall’altro, spicca un uomo con sesso eretto, imbrigliato tra le piante. Questa scultura a quattro mani rappresenta l’unione tra il maschile e il femminile, in particolare spicca il cappello del fungo creato da Tinguely, composto da parti metalliche arrugginite, e non passa inosservato un pezzo della carrozzeria di un’automobile giocattolo per bambini.
Qual è il messaggio?
Le sue paradossali Machines Inutiles, concepite come allegorie di una produzione irresponsabile, realizzate con assemblaggi di oggetti trovati e performanti nel tempo e nello spazio, che si contraddistinguono per cacofonici suoni e movimenti inattesi, aprono riflessioni sulla possibilità giocosa di rigenerazione dei materiali di scarto e, come scrive Tinguely, “La macchina è innanzitutto lo strumento che mi consente di essere poetico. Se la rispetti, se ti metti in gioco con la macchina, allora forse puoi davvero dare vita a una macchina gioiosa – e con gioiosa intendo libera”.
AUTHOR
Jacqueline Ceresoli
Storica e critica dell’arte. Docente universitaria, curatrice di mostre indipendente. Collabora con diverse testate di architettura e arte. Il suo ultimo libro è Light art paradigma della modernità. Luce come oper-azione di arte relazionale, Meltemi Linee (2021). Scrive su LUCE dal 2012 e tiene la rubrica Light art da quando l’ha proposta al direttore diversi anni fa.
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