INDICE
- 1 Intervista a Roberto Zappalà
- 2 Cos’è per lei la danza?
- 3 Emerge nelle sue coreografie sempre una forte sensibilità per la ricerca estetica, un’attenzione al bello.
- 4 Del corpo, coltivato quale strumento puro, unico e profondo di espressione, comunione e comunicazione, ne ha fatto il suo credo creativo, declinato in una danza astratta e al tempo stesso carnale, sempre pulsante, pregna di senso.
- 5 Perché tanti corpi nudi nelle sue coreografie?
- 6 Cosa l’ha spinta a rivisitare tre capolavori, che hanno segnato il percorso coreografico e musicale del secolo scorso? Sia “L’après-midi d’une faune” di Debusy, il “Boléro” di Ravel che “Le Sacre du printemp” di Stravinsky sono stati messi in scena in ordine da Vaclav Nižinski, Maurice Béjart e Pina Bausch (per citare i più famosi).
- 7 Gli stacchi tecno?
- 8 Di questo spettacolo non è solo regista e coreografo, ma anche scenografo, costumista, si occupa delle luci.
- 9 Cosa è per lei la luce?
- 10 Non è mistero che nel mondo della luce professionale ci siano ancora alcuni “detrattori del LED”.
- 11 Fonti luminose privilegiate?
- 12 Dopo tanti anni di carriera, come riesce a rinnovarsi continuamente e a proporre sempre idee originali?
- 13 Se ritorna con la mente a quando era bambino, qual è il suo primo ricordo collegato alla danza?
Settanta, intensi, minuti nei quali il movimento dei corpi ha la stessa importanza delle luci, dei costumi, delle scene, dove l’emozione scaturisce tutta dalla musica e dalla danza stessa amplificata dal disegno luci e da suggestivi effetti di fumo, tra pose bloccate, scatti repentini, trascinamenti a terra, movimenti rallentati. Sulla scena, in alto, incombe, una rete, simile a quelle da circo che vengono tese mentre gli acrobati si portano a metri dal suolo per gli esercizi di equilibrismo sulle funi. Mentre lo spazio d’azione è delimitato da un tappeto con piccoli teschi colorati come quelli dei riti messicani. Sul fondale si intravede l’immagine di una metropoli dai grattaceli con disegni pop con piccole lucine che si accendono quando lo spazio scenico diventa particolarmente buio. Il cromatismo delle luci passa dal rosso violaceo acido al blu e al fascio di luce bianca profondamente straniante che fa risaltare il bianco delle teste dei caproni. Figure in nero con indosso mantelli e teste di ariete dalle grandi corna bianche avanzano lentissimamente. Un’epifania spettrale. Sulla scena un ensemble di 14 danzatori e 10 comparse dà avvio a una danza viscerale e potente, sensuale e molto fisica, in un crescendo. Fra piacere e stordimento.
Stiamo parlando di Trilogia dell’estasi, il nuovo spettacolo del coreografo catanese Roberto Zappalà (che si avvale della drammaturgia di Nello Calabrò) che ha rivisitato tre capolavori musicali e coreografici del primo Novecento, da sempre oggetto di nuove letture, di elaborazioni e rifacimenti, suscitatori di immaginari d’ogni tipo: L’Après-midi d’un faune di Claude Debussy, il Boléro di Maurice Ravel e Le sacre du Printemps di Igor Stravinsky.
Lo spettacolo, dopo aver debuttato in prima assoluta nel contesto del Festival del Maggio Musicale Fiorentino, sull’onda del vivissimo successo che ha registrato un doppio sold out al Teatro dell’Elfo di Milano che ha aperto (il 24 e 25 settembre) la 38° edizione del Festival MILANoLTRE della danza, prosegue la sua lunga tournée dopo Catania, a Bolzano, Pesaro, Piacenza, Reggio Emilia, Ravenna, Lucca, Pordenone, per concludersi il 30 marzo 2025 a Cremona.
Tre diverse coreografie, tre diverse partiture senza quasi soluzione di continuità, legate fra loro nel breve intervallo che le separa da una musica techno debordante, (Tujamo, VINNE & Murotani).
Nella prima coreografia, sulle note di Claude Debussy, il gruppo di danzatori avanza lentamente nello spazio circondando il bianco fauno (Filippo Domini) che dà vita ad un intenso assolo eseguito per tutto il tempo in uno spazio ristretto, nel rettangolo lucente decorato a terra che lo accoglie, una sorta di mandala di luci disegnato sul palcoscenico, all’interno del quale il fauno compie la sua danza primordiale, fra scatti improvvisi e calcolati ritardi, capriole e movimenti sinuosi, con una gestualità dal ritmo smaccatamente masturbatoria. Un potente fascio verticale di luce blu ipnotica e fredda trafigge l’oscurità circostante ed enfatizza il tema della solitudine e dell’isolamento del fauno.
Per il Boléro, i 14 danzatori nascosti sotto neri mantelli e incappucciati, avanzano lentissimamente, su importanti tacchi, dal fondo in penombra con movimenti impercettibili, quasi in processione, e si addossano al proscenio. All’inizio sembra un lento rito monacale, circolare e notturno, dentro cerchi luminosi, le disposizioni in linea si alternano senza velocità, fino a che all’improvviso lasciano cadere i mantelli e mostrano i corpi nudi, restando con le sole maschere e i tacchi a spillo. Incalzati dall’incessante ritmo della musica di Ravel si lanciano in figure, grovigli, abbandoni, esplosivi impeti gestuali, mentre si stagliano a fondale, immobili, illuminate per tutto il tempo con una inquietante luce al neon, le maschere caprine, quasi come immaginari spettatori zoomorfi che da fondo scena continuano a osservare.
Terzo e ultimo pezzo della Trilogia è Le sacre du Printemps (il pezzo migliore) con la musica di Stravinsky, selvaggia e dai suoni stridenti, che evoca atmosfere primordiali, danze rituali tumultuose. Ma non c’è, come nella coreografia originale del 1913, un antico rito pagano per la fertilità del suolo in cui una vergine Eletta veniva sacrificata. Nel Sacre di Zappalà è l’alienato caos esistenziale contemporaneo a prorompere in una festa da sballo viziata da fiumi di alcol e dosi di droga, in cui i corpi ostentano una spasmodica sete di sesso e potere, tra gesti scomposti, combinazioni di coppie, quartetti, quintetti, piegamenti a terra, crolli e rinascite, formazioni in cerchio, e quei movimenti delle braccia in alto e in più direzioni, velocissimi e all’unisono, e che infine esausti si rifugiano in un girotondo, convergendo avvinghiati al centro della scena. Epilogo finale, l’enorme rete bianca cade dall’alto e intrappola l’ensemble dei danzatori.
Chiaro è il messaggio di Zappalà: siamo tutti noi a essere sacrificati da una società umanamente disumana. Non ci sono vie di scampo? Nel caos esistenziale nel quale siamo immersi, Zappalà ci chiede se abbiamo perso la capacità di opporre resistenza e ribellarci. Sicuramente un grande allestimento, uno dei pochi di calibro internazionale visti negli ultimi anni in Italia. Il pubblico applaude. Lui, Zappalà, si inginocchia a terra e fa il segno della croce.
Intervista a Roberto Zappalà
Catanese d’origine, classe 1961, Roberto Zappalà, dopo aver danzato fino all’età di trent’anni, collaborando con diverse compagnie e coreografie di Kylian, Mats Ek, Birgit Cullberg (solo per citarne alcune), proprio nella sua città natale nel 1989 ha fondato la Compagnia Zappalà Danza, una delle principali realtà della danza italiana, di cui è direttore artistico e coreografo principale, con la quale sviluppa un intenso lavoro di ricerca, maturando un proprio originale linguaggio coreografico. È anche direttore di Scenario Pubblico, fondato nel 2002 sempre nella città di Catania, punto di riferimento per la danza non solo in Italia e riconosciuto dal MiC (il Ministero della Cultura) come Centro di Rilevante Interesse Nazionale per la Danza bel 2022. “È un di luogo produzione, di ricerca, di promozione, di fermento creativo. Cercavamo un capannone in periferia e poi ci siamo imbattuti in questa proprietà in centro, vicino al Teatro Bellini, che era semplicemente perfetta”, racconta Zappalà. Uno spazio articolato in una sala teatro all’avanguardia da 150 posti, due ampie sale danza, un laboratorio attrezzato per le scenografie e per la videodanza, una foresteria e un ristò/caffè. “Abbiamo circa 300 proiettori, tutti motorizzati e nuovi, e un service audio e luci di altissimo livello. Era una mia esigenza, ma credo sia il desiderio di qualunque coreografo. L’avvento dei fari a testa mobile e con sorgente LED ha trasformato in modo significativo l’illuminazione nella danza”.
Cos’è per lei la danza?
Poesia del corpo. Lo sottolineo perché la danza, ormai da decenni, ha avuto una serie di infiltrazioni, dalle videoinstallazioni e dall’elettronica fino agli effetti speciali. Il ritorno al solo corpo è stato per me un’esigenza e una sfida che ho perseguito in tutte i miei lavori. Ovviamente il corpo diventa anche anima.
Emerge nelle sue coreografie sempre una forte sensibilità per la ricerca estetica, un’attenzione al bello.
È un valore umano. La bellezza fa parte dell’umanità. E non si trova per forza nelle cose belle solo all’apparenza estetica. “Glorificare l’immagine ancor prima del significato”, è una frase di Baudelaire che ho fatto mia da trent’anni. Io miro ad andare molto di più al cuore del pubblico che al cervello, mi piace anche emozionare e non solo far capire e pensare. Questo è ciò che sento. Per questo forse ci piace un’opera d’arte (pittorica, scultorea, musicale, motoria…): porta alla luce un pensiero, non rendendolo necessariamente un pensiero razionalmente cosciente, ma facendo di quel pensiero qualcosa di emotivamente vivo, qualcosa che ci permette di pensare. Già Picasso diceva: tutti vogliono capire la pittura. Perché non cercano di capire il canto degli uccelli? L’arte non si deve capire, non è destinata a spiegare. A spiegare cosa? mi chiedo.
Del corpo, coltivato quale strumento puro, unico e profondo di espressione, comunione e comunicazione, ne ha fatto il suo credo creativo, declinato in una danza astratta e al tempo stesso carnale, sempre pulsante, pregna di senso.
Ho scritto di questo argomento anche in un libro, sottolineando che noi stiamo lavorando per un nuovo “umanesimo del corpo”. Specie in un’epoca come la nostra, in cui tutto è virtuale, significa ritrovare la naturalezza del mettere a disposizione” il corpo della propria anima” e viceversa riscoprire anche la voglia di condividere il proprio corpo con gli altri, nell’accezione più nobile. D’altronde sta proprio qui il punto di forza della danza, nel non servirsi delle parole, ma del corpo: dovunque io porti uno spettacolo a Rovereto o a Tel Aviv, in Tunisia o a Xi’an in Cina, il linguaggio del corpo resta universale e può essere trasmesso a tutti. Anche se non tutti lo comprendono allo stesso modo.
Perché tanti corpi nudi nelle sue coreografie?
L’arte mette a nudo l’umanità. Con la danza, sento di dover mettere a nudo l’umanità attraverso il corpo. È un lavoro di svestimento, occorre spogliarsi per liberarsi da tutto ciò che ci ancora al giudizio verso noi stessi e gli altri, per ricercare invece l’autenticità, una sincerità del corpo, una verità di fondo e mettere fuori qualcosa che sta nel profondo. Immaginate quindi quanto alcuni possano restare sconvolti di fronte a un nudo sulla scena. Il linguaggio che abbiamo curato negli ultimi vent’anni si chiama MoDem, movimento democratico, che ha dei suoi codici specifici. Non si tratta di un esercizio ginnico, ma di un momento di profonda ricerca su di sé, in cui, ponendosi in ascolto del proprio corpo, si impara a sentirlo, ad amarlo, a odiarlo. Il lavoro che noi facciamo è imperniato sulla conoscenza delle giunture, delle parti del corpo ed è un processo molto difficile da spiegare sinteticamente a parole; risulta molto più facile vederlo!
Cosa l’ha spinta a rivisitare tre capolavori, che hanno segnato il percorso coreografico e musicale del secolo scorso? Sia “L’après-midi d’une faune” di Debusy, il “Boléro” di Ravel che “Le Sacre du printemp” di Stravinsky sono stati messi in scena in ordine da Vaclav Nižinski, Maurice Béjart e Pina Bausch (per citare i più famosi).
La sfida e la scommessa di questa trilogia sono state trovare un nuovo immaginario visivo e coreografico , tenendo conto del passato, per portare in scena la contemporaneità, le derive della società di oggi: l’inquietudine del presente, la maschera sociale, le pulsioni represse, la solitudine, l’erotismo, la violenza, lo sballo mortifero. Il primo spunto concettuale della creazione è ispirato a un tragico fatto di cronaca accaduto durante una festa in una villa nella campagna romana agli inizi del 2021 sul quale si innesta un’evocazione dell’iconica sequenza della festa in Eyes wide shut di Kubrick per il Boléro di Ravel. L’Après-midi parla soprattutto della solitudine, del sentirsi estranei, del non potere o volere partecipare a una socialità forzata, quasi obbligata, che ha una via di fuga in un erotismo sognato e vagheggiato, in parte onanistico. Nel Sacre di Stravinsky è il caos esistenziale in cui siamo immersi e immolati a prorompere, senza un minimo di ribellione. Schegge che si urtano, si cercano, si sfuggono, senza davvero incontrarsi.
Gli stacchi tecno?
Come regista, ho rispettato la musica non stravolgendo nulla dei tre capolavori ma, volendo creare un trait-d’union fra i tre quadri era necessario legare il tutto con qualcosa che facesse entrare il pubblico in un’atmosfera un po’ speciale che evocasse le atmosfere da discoteca, tappeto sonoro dello sballo di oggi.
Di questo spettacolo non è solo regista e coreografo, ma anche scenografo, costumista, si occupa delle luci.
Lo faccio sempre. Lo spettacolo, per me, deve avere un’unica coerenza. Quando penso ai costumi, io so già cosa farò con i corpi, come si vedranno alcuni movimenti, quindi, si tratta di un pensiero di costruzione dello spettacolo molto più ampio. Le collaborazioni degli ultimi anni sono di natura tecnica come con Veronica Cornacchini per i costumi. Lo stesso vale per la luce. Io penso alle luci, ma mi avvalgo di un direttore tecnico che se ne occupa, il bravo Sammy Torrisi.
Cosa è per lei la luce?
La luce è movimento. Nel tempo e nello spazio. La luce funziona come la danza, si muove di continuo. Scandisce una sorta di fade in – fade out, di dissolvenza in entrata e in uscita di gesti, tracciando con punti, linee e direzioni uno spazio che si dissolve nell’attimo dopo essere stato creato. Anche i corpi in movimento trasformano lo spazio. Anche il danzatore, nel prepararsi e nel mettere in scena la performance, viene “toccato” nel suo corpo dalla luce, la percepisce, la vive, la sperimenta anche emozionalmente e il suo corpo risponde con le parole del movimento. Non solo. Diversamente da quanto accade in teatro o in un’opera lirica, spesso la componente scenografica viene sacrificata, dal momento che una coreografia ha bisogno di spazio per non intralciare i passi dei performer. Il corpo del danzatore diventa l’epicentro della scena, il punto focale da cui si dipana il ritmo scenico. L’illuminazione dello spazio, modulabile e, soprattutto, gestibile a distanza, diventa allora strumento essenziale per creare la scenografia. Per mutare continuamente con i cambi di luce l’aspetto della scena. Magari attraversata da un solo fascio di luce cruda, capace di generare dei contrasti molto elevati, riservata ai momenti di assolo dei danzatori. O quella necessaria a determinare il chiaroscuro, illuminando debolmente solo gli spazi scenici necessari a collocare visivamente la narrazione.
Non è mistero che nel mondo della luce professionale ci siano ancora alcuni “detrattori del LED”.
La penso diversamente. L’illuminazione del palco a LED ha migliorato la bellezza e l’impatto degli spettacoli di danza. Consumano meno, con conseguente risparmio energetico.
Fonti luminose privilegiate?
Usiamo pochissimi tagli di luce che invece si usano molto nel balletto classico che contiene grandi salti. Privilegio il sistema di illuminazione a teste mobili, montate su dispositivi motorizzati. La luce è sempre in movimento e questo permette al sistema coreografico di muoversi con più forza e rigore. I motorizzati velocizzano molto il lavoro. Senza bisogno dei puntamenti, attraverso un controller o anche semplicemente lasciando fare in automatico, si possono direzionare fasci e giochi di luce come si desidera. Nel caso specifico della Trilogia dell’estasi abbiamo usato Par LED a testa mobile bianco freddo: diffondono una luce molto luminosa e spettrale, dura e spigolosa. Obiettivo che volevo raggiungere. Non amo invece le video proiezioni, in stretta relazione alle azioni dei performer. Voglio fare vedere corpi reali. Per alcuni effetti scenografici amo usare invece il fumo artificiale che determina anche un cambiamento della luce, crea delle ombre, dei riverberi luminosi, scolpendo lo spazio e amplificando i movimenti che si riverberano nell’aria.
Dopo tanti anni di carriera, come riesce a rinnovarsi continuamente e a proporre sempre idee originali?
Non lo so (ride). Credo che tutto parta dall’idea di voler esprimere e comunicare qualcosa tramite la danza. E poi mi annoio facilmente e mi piace mettermi in gioco. Non sono però un coreografo bulimico che si lancia in ogni progetto pur di fare. Posso passare mesi o addirittura anni a perfezionare un progetto coreografico. Ma in realtà forse non esiste un momento in cui questo realmente finisce.
Se ritorna con la mente a quando era bambino, qual è il suo primo ricordo collegato alla danza?
Le scarpine, così scomode. Ricordo la prima volta che le ho calzate, sentivo il piede rattrappito. Forse perché a quei tempi giocavo anche a calcio e le scarpe avevano delle tomaie leggere, con pianta abbastanza larga.
AUTHOR
Cristina Tirinzoni
Cristina Tirinzoni, laureata in scienze politiche, giornalista professionista di lungo corso, ha collaborato con le maggiori testate femminili, occupandosi delle pagine di cultura, libri, teatro, arte. Convinta che la bellezza (forse) salverà il mondo e che non si finisce mai di scoprire e di raccontare grandi e piccoli costruttori e seminatori di bellezza. Ha pubblicato due libri di poesie Sia pure il tempo di un istante (Neos edizioni) e Come un taglio nel paesaggio (Genesi editore)
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