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Corrado d’Elia in "Io, Vincent Van Gogh". Photo © Sara Meliti

“IO, VINCENT VAN GOGH” DI CORRADO D’ELIA IN SCENA AL TEATRO LEONARDO DI MILANO

By Cristina Tirinzoni
Pubblicato il
Marzo 2024

Corrado d’Elia in “Io, Vincent Van Gogh”
Photo © Sara Meliti

Entri e il sipario è aperto. Sul palco si spalanca un campo di grano color dell’oro e del bronzo, appena arato, come squassato dal vento, con un solco che lo taglia in mezzo, come una ferita. È posta una semplice sedia, un cielo blu. In sala si sentono i grilli, il fruscio del vento, il frinire di cicale. Così, come entri e ti accomodi, sulla poltrona, già cominci a entrare nel mondo, nell’anima di Vincent. Buio, stacco musicale un po’ violento, aggressivo, luce… Ed eccolo Corrado d’Elia/Vincent Van Gogh seduto sulla sedia.  “Dipingere è come arare un campo di grano. E l’emozione è così forte, così impulsiva, così antica, che quasi non sento la fatica”. E inizia il viaggio, come una ballata poetica, nella vita di Vincent, in quel mistero che sta dentro la sua anima “ad asciugare”, al sole, con quella passione viscerale per l’arte (“ho bisogno dei colori come fossero cibo, mi nutro di arancio, di blu, di verde”). Attore, regista, sceneggiatore, Corrado d’Elia mette in scena al Teatro Leonardo di Milano (fino al 24 marzo) uno spettacolo di rara intensità, dedicato a uno dei più celebri e mitizzati pittori di tutta la storia dell’arte: Io, Vincent Van Gogh.

“C’è qualcosa in lui che tocca una corda universale, che coinvolge tutti. I suoi quadri sono dentro di noi, Tutto il mondo conosce la vita e le opere del grande pittore (in tutta la sua vita ha venduto un solo quadro per trenta franchi! Oggi è l’artista più pagato alle aste) e in tanti hanno provato a scriverne, nel cinema e anche in teatro. Com’è possibile dunque sorprenderci ancora? Come restituire al pubblico l’intensità, le emozioni che l’opera di questo artista suscita in noi? Come restituire al pubblico qualcosa di diverso da quello cui è abituato? Sapevo con esattezza quello che non volevo fare: una lezione teatrale, spiegare, descrivere, commentare, proiettare immagini di quadri o interpretare davvero come attore in prima persona il personaggio di Van Gogh”, spiega Corrado d’Elia.

LO SPETTACOLO TEATRALE

Corrado d’Elia in “Io, Vincent Van Gogh” Photo © Sara Meliti

Solo in scena, seduto per tutto il tempo su un palcoscenico che rimanda ai gialli campi di grano, così amati da Van Gogh, (“Questo campo di grano, questo eterno ondeggiare per sempre sarò io”), Corrado d’Elia incarna il corpo di Vincent. Un lavoro attoriale di compenetrazione, di immedesimazione (“il teatro si fa carne”, dice d’Elia) per svelare un Vincent inedito. L’uomo, ancora prima del pittore. Con la potenza di un testo poetico (meritoriamente risultato vincitore della XVII edizione del Concorso Europeo per il Teatro e la Drammaturgia Tragos per la Sezione Autore Contemporaneo.) Nessun dipinto, nessuna traccia visiva dell’arte di Vincent. La scenografia implode in pochi elementi, ma di grande suggestione, e il disegno luci della brava Chiara Salvucci (architetto, scenografo, attrice) è fatto di pennellate luci, dense di colore, striate di rosso e di verde e di blu, in complementare equilibrio con la parola detta carica di lirismo, in un succedersi di violenti e improvvisi cambi di luce: dal blu cobalto scuro di vorticosi cieli nella notte stellata, al giallo dei girasoli e dei campi assoltati. Nel profondo buio, l’accendersi di una lampadina può evocare gli interni in penombra e i volti dei famosi mangiatori di patate. Stanchi, sfiniti, le mani nodose.

Il monologo prende vita come davvero fosse la pittura di un quadro. Un emozionante serrato flusso emotivo, dai toni più delicati a quelli più accesi, che pare comporsi via via, davanti a noi, a grandi pennellate, le parole come scie vorticose che si inseguono entro cieli dal blu intenso, a turbarci, commuoverci. La nascita, segnata, quasi fosse il presagio di un futuro difficile, dalla morte del fratello (da cui eredita il nome Vincent), avvenuta esattamente un anno prima della sua venuta al mondo. Gli anni di Parigi, il rapporto epistolare col fratello Theo, la vita ad Arles, l’amore dolce e disperato per Sien, l’amicizia travagliata con l’artista Gauguin, il manicomio e in ultimo quell’urlo agghiacciante. “Io vi supplico, spegnete il sole, vi prego, spegnete la luce, lasciatemi riposare… Vincent il dannato, il reietto è caduto, si è schiantato, è perduto”. Nel silenzio repentino e spiazzante di un cambio di luci, in questo urlo sprofondiamo anche noi, all’improvviso. Vincent/d’Elia si raggomitola in una buca di letame e si spara un colpo di pistola al fianco. Quell’urlo e quello sparo risuonano ancora dentro di noi.

AUTHOR

Cristina Tirinzoni

Cristina Tirinzoni, laureata in scienze politiche, giornalista professionista di lungo corso, ha collaborato con le maggiori testate femminili, occupandosi delle pagine di cultura, libri, teatro, arte. Convinta che la bellezza (forse) salverà il mondo e che non si finisce mai di scoprire e di raccontare grandi e piccoli costruttori e seminatori di bellezza. Ha pubblicato due libri di poesie Sia pure il tempo di un istante (Neos edizioni) e Come un taglio nel paesaggio (Genesi editore)

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