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60. Biennale Arte 2024. “Stranieri Ovunque” in un mondo di crisi: facciamo luce su artisti immigrati, espatriati, emigrati, esiliati o rifugiati
By Jacqueline Ceresoli
Pubblicato il
Novembre 2024
Identità, cittadinanza, razza, genere, sessualità, libertà, ricchezza e giustizie o democrazie incompiute: sono questi i temi complessi della 60. Biennale Arte 2024, intitolata Stranieri Ovunque, a cura di Adriano Pedrosa primo curatore dichiaratamente queer nella storia della Biennale Arte, ed è una novità, che include 43 Paesi partecipanti con opere diffuse tra Arsenale, Giardini e centro storico veneziano, provenienti soprattutto dall’America Latina.
Spiccano i molti indigeni (stranieri nella propria patria), artisti queer e gli outsider (con linguaggi non conformi ai canoni della storia dell’arte occidentale). Sappiamo già che il Padiglione Israele presidiato da una coppia di militari, non è stato mai aperto, stranisce la Russia che ha ceduto il suo edificio alla Bolivia, senza spiegare il perché di questa bizzarra scelta. Di nuovo in questa Biennale c’è la normalizzazione della diversità, c’è la proposta di riflessione sul cosa significa essere stranieri e sono/siamo ovunque nell’epoca globale postcoloniale, soprattutto a Venezia, una città costituita da genti provenienti da diverse parti del mondo, luogo di scambio commerciale e culturale, arteria sul Mediterraneo dove, grazie alla Biennale Arte, dal 1895 gli artisti da diversi continenti, Paesi e città, si muovono dal Sud al Nord, per cercare in Laguna nuovi modelli di appartenenza o linguaggi poetici. Ma è ancora così nel 2024? Oppure è già tutto invecchiato e ciò che vediamo, tipo l’artista queer che supera barriere di genere e sessuali, l’outsider, l’indigeno autodidatta che vive ai margini del mondo, spesso trattato come uno straniero in patria, hanno qualcosa di urgente, o meglio di nuovo, da proporci oltre alla propria conclamata diversità? Di fatto loro con i social media si sono già autolegittimati, diventando una componente importante della nostra società, riconosciuti dai Paesi democratici che non li considerano più come un problema, bensì come una opportunità per un cambio di passo, segno di evoluzioni sociali.
Chi ha paura del presente?
Per trovare una risposta bisogna addentrarci dentro il Nucleo Contemporaneo della mostra ospitata alle Corderie, che offre una sezione speciale dedicata a Disobedience Archive, un progetto di Marco Scotini che dal 2005 sviluppa un archivio video incentrato sulle relazioni tra pratiche artistiche e attivismo. Alla Biennale Arte 2024 questo archivio di nuovo presenta un allestimento magistrale, progettato da Juliana Ziebell. La mostra è suddivisa in due parti appositamente concepite per contenere Attivismo della diaspora e Disobbedienza di genere, per fagocitare il visitatore in un girone infernale dove le opere di 39 artisti e collettivi realizzate tra il 1975 e il 2023 ci dimostrano che nessuno è innocente e che i muri culturali, ideologici, religiosi creano mostri.
Modernismi quali e quanti?
L’altra illuminante riflessione verte sull’attualità del Modernismo, proposta dal Nucleo storico dove sfilano opere del XX secolo (dal 1915 al 1990) provenienti dall’America Latina, dall’Africa, dal Medio Oriente e dall’Asia che svelano come i modernismi nel Sud del mondo sono ancora sconosciuti e s’intrecciano con il colonialismo. In questo processo osmotico è curioso osservare che molti artisti hanno qualcosa di originale da proporre, perché attingono da riferimenti locali e indigeni. Le due sezioni del Padiglione Centrale, suddivise in Astrazioni (40 artisti) e Ritratti (più di 100 artisti), indagano su come i vari Sud del mondo entrano in contatto con il Modernismo europeo attraverso viaggi, libri, mostre studio, e non stupisce vedere che la maggior parte dei ritratti in mostra non sono bianchi. Di buono c’è che la maggior parte degli artisti del Nucleo Storico partecipa per la prima volta alla Biennale e finalmente gli outsider e gli indigeni vengono riconosciuti a livello internazionale, così l’Occidente li consacra e accoglie come un arricchimento della nostra cultura transnazionale.
Alle Corderie è imperdibile la terza sezione del Nucleo Storico, intitolata Italiani Ovunque, dedicata alla diaspora degli artisti italiani che hanno viaggiato e si sono trasferiti all’estero, lavorando in Africa, Asia, America Latina, Stati Uniti e negli altri Paesi d’Europa. Gli italiani all’estero sono stati ambasciatori del Modernismo e lo dimostrano una quarantina di artisti italiani con le loro opere esposte con l’elegante sistema di cavalletti di vetro ideato nel 1968 da Lina Bo Bardi (Roma 1914 – San Paolo 1992), architetta italiana trasferitasi in Brasile a cui è stato riconosciuto il Leone d’Oro speciale alla memoria in occasione della Biennale Architettura 2021. Piace ai critici e agli addetti ai lavori, meno al pubblico, il Padiglione italiano con Due qui/To hear, una installazione scultoreo-sonora di Massimo Bartolini, curata da Luca Cerizza, un labirinto di tubi di metallo abitato da un piccolo Buddha e dal componimento musicale ipnotico, meditativo. Ma bando alle classifiche dei padiglioni in e out, già stilato da molte riviste, in questo articolo miriamo al nocciolo delle riflessioni sulla Biennale invecchiata che dimostra i suoi anni nella modalità espositiva ancora ottocentesca, che andrebbe revisionata radicalmente nel nostro complesso presente, ma confidiamo nella prossima edizione.
Cosa c’è di strano?
Ai Giardini ci sono circa 200 artisti, 300 all’Arsenale (di cui il 60% non più viventi), con mostre collaterali e installazioni più o meno decorative, riempitive e realizzate con diversi materiali o accessori usurati che narrano microstorie, traumi personali degli artisti. Succede che la didascalia diventa l’opera stessa poiché, nelle arti visive contemporanee, tutto è ideologia e narrazione più che invenzione. E nell’ottica dello storytelling forzata anche gli “oggetti” che vediamo esposti contengono informazioni sull’attualità del nostro tempo, seppure fatti maluccio o già visti, almeno dovrebbero trascendere la soggettività dell’artista per diventare collettivi, ma ciò avviene in rari casi. Si tratta per lo più di lavori impegnati, specchio di problematiche di crisi ambientale, emarginazione, sfruttamento, razzismo, transnazionalismo, pansessualismo eccetera e, per quanto gradevoli, i dipinti naif non bastano a porre rimedio a una situazione preoccupante dell’arte che da quarant’anni è concentrata sulla cronaca del presente, inseguendo attualità, attitudini etnografiche, analisi antropologiche per necessità.
L’arte non può solo ridursi a trattati di sociologia o pedagogia o di denuncia politica, manca uno spiraglio di speranza di Bellezza! Manca una poetica di tensione spirituale, utopie di volontà collettiva per trovare armonie meno precarie, come premessa di un futuro migliore, vivibile e solidale.
E in questa ottica di uguaglianza globalista, la Biennale di Pedrosa spicca con opere realizzate con tessuti trapuntati, ricami e lustrini, pochi LED, molti materiali organici, argilla, legno, arazzi dalle cromie vivaci o installazioni ispirate alla natura, però tutto già visto e delude proprio perché nei contenuti consolida ciò che conosciamo già. Il curatore, sulla scia di Cecilia Alemani, curatrice della Biennale Arte 2022, Il latte dei Sogni, continua a recuperare opere perdute e più sottovalutate se firmate da donne del Sud del mondo. Ai Giardini ci sono le opere migliori e ben allestite, indimenticabili sono i Bamboo della brasiliana Ione Saldanha, invece è più ibrido l’Arsenale, tutto scorre e poco non si dimentica. Al Padiglione Centrale sono potenti i dipinti post-picassiani di Louis Fratino (New York, 1993), con scene di vita quotidiana queer non voyeuriste, bensì affettive. Le questioni di gender–fluid sono il tema di molti lavori, il Leone d’oro alla Carriera è andato ad Anna Maria Maiolino (Scalea 1942), con un’opera realizzata con la vegetazione e piccole sculture. Sorprendono le quinte vegetali per la facciata del Padiglione Centrale, quest’anno completamente ridisegnato dai vivaci colori tropicali, opera del collettivo MAHKU (il Movimento degli Artisti Huni Kuin, una popolazione amazzonica che abita tra Brasile e Perù, nella Regione dell’alto Rio Jord ão). Anche questa Biennale senza lode e senza infamia si dimenticherà, nell’attesa di vedere la prossima, nel frattempo luci e ombre dell’umanità “avariata” saranno cannibalizzate dal flusso mediatico in rete, dove tutto è già passato per noi bulimici di nuovismi a tutti i costi e in tutti i posti.
AUTHOR
Jacqueline Ceresoli
Storica e critica dell’arte. Docente universitaria, curatrice di mostre indipendente. Collabora con diverse testate di architettura e arte. Il suo ultimo libro è Light art paradigma della modernità. Luce come oper-azione di arte relazionale, Meltemi Linee (2021). Scrive su LUCE dal 2012 e tiene la rubrica Light art da quando l’ha proposta al direttore diversi anni fa.
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